Gli
edifici pubblici. Non applicabilità della disciplina delle distanze.
Per quanto riguarda gli edifici
demaniali è stata superata la controversia sulla questione se siano
assoggettabili o meno alla disciplina delle distanze.
La disposizione del codice civile del
1865, all’art. 556 c.c., esonerava gli edifici destinati all’uso pubblico dal
rispetto delle distanze legali fra costruzioni, ponendo seri problemi
interpretativi per definire l’oggetto della disposizione.
L’art. 879 c.c. precisa, invece, che
l’esenzione riguarda gli edifici del demanio pubblico e quelli di interesse storico ed artistico.
Alla comunione forzosa non sono soggetti gli edifici
appartenenti al demanio pubblico e quelli soggetti allo stesso regime, né gli
edifici che sono riconosciuti di interesse storico, archeologico o artistico, a
norma delle leggi in materia. Il vicino non può neppure usare della facoltà
concessa dall’art. 877.
Alle
costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si
applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano
(Art.
879 c.c.).
Numerose sentenze hanno ribadito che ai
beni demaniali non sono applicabili, in ragione della loro natura e funzione,
le disposizioni sulle distanze.
La suddetta omissione viene
interpretata come dovuta al fatto che il legislatore ha ritenuto superfluo
enunciare un principio già implicito
nell’ordinamento, quale corollario dello statuto.
Un altro orientamento, invece,
attribuisce detta omissione al fatto che il legislatore abbia voluto così
sopprimere l’esenzione, contenuta nel codice abrogato, relativa agli edifici
demaniali.
A sostegno di tale conclusione viene
portato il confronto fra la decisione espressa sull’esenzione dalla comunione
forzosa del muro, art. 879, 1° co., c.c. ed il silenzio sull'esenzione dal
rispetto delle distanze legali.
L’art. 879 c.c. esclude esplicitamente
l’applicazione delle regole in materia di distanze alle costruzioni, siano esse
private o pubbliche, confinanti con strade e piazze pubbliche (Paolini 1991,
172).
Ai fini dell'art. 879, 2° co., c.c., la qualifica
pubblica di una via deve essere intesa
nel suo stretto significato giuridico, onde tale via fa parte del demanio non solo in quanto
sia destinata da un ente territoriale autarchico con espressa o tacita
manifestazione di volontà al servizio pubblico, ma in quanto altresì gli
appartenga
(Cass.
civ., sez. II, 30 dicembre 1999, n. 14714, GCM,
1999, 2654).
Agli
effetti dell'art. 879, 2° co., c.c., deve considerarsi pubblica la via o piazza
appartenente ad un ente territoriale autarchico e da questo destinata, con
espressa o tacita manifestazione di volontà, al servizio pubblico,
ovvero la strada privata gravata da servitù di uso pubblico, acquistata per usucapione o avente titolo in una convenzione tra il proprietario del suolo
stradale e la p.a.
(Cass.
civ., sez. II, 26 maggio 1999, n. 5113, GCM,
1999, 1174).
La giurisprudenza ha esteso tale
esclusione anche al caso di strade private destinate ad uso pubblico.
L'esonero dal rispetto delle distanze legali, previsto
dall'art. 879, 2° co., c.c., per le costruzioni a confine con le piazze e vie
pubbliche, va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di
proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, attenendo il
carattere pubblico della strada - rilevante ai fini dell'applicazione della
norma citata - più che alla proprietà del bene, all'uso concreto di esso da
parte della collettività
(Cass.
civ., sez. II, 29 agosto 1997, n. 8236, GBLT,
1998, 60).
La giurisprudenza ha affermato che una
strada privata può legittimamente dirsi asservita ad uso pubblico, ai fini
dell'esenzione dal rispetto delle distanze stabilite dagli artt. 873 ed 878
c.c. qualora l'uso predetto trovi titolo in una convenzione tra i proprietari
del suolo stradale e l’ente pubblico, ovvero esso si sia protratto per tutto il
tempo necessario all'usucapione.
La
natura pubblica della strada (o dell'uso che, di essa, ne faccia la
collettività) va individuata sotto profili strettamente giuridici, così che, in
mancanza di specifiche convenzioni tra privati e p.a., la sua destinazione al
pubblico transito deve risultare affatto inequivoca, non essendone sufficiente
una mera utilizzazione da parte di soggetti, ancorché diversi dai proprietari,
secondo modalità di comportamento uti
singuli, e non anche uti cives,
come nel caso di passaggio finalizzato all'accesso ad unità abitative, uffici o
negozi ubicati su suoli privati
(Cass.
civ., sez. II, 29 agosto 1998, n. 8619, GCM,
1998, 1810).
Le
norme sulle distanze tra costruzioni non si applicano non solo se queste sono separate
da una via pubblica (art. 879, 2° co., c.c.), ma anche se la via è
asservita a pubblico transito, protratto per il tempo necessario ad usucapire
il relativo diritto
(Cass.
civ., sez. II, 10 giugno 1997, n. 5172, GCM,
1997, 952).
Le norme della disciplina sulle
distanze, inoltre, richiedono il rispetto delle esigenze igieniche, alla cui
tutela sono rivolte, in modo vincolante per i soggetti interessati, a
prescindere se siano di natura pubblica o privata.
Sotto il profilo processuale è stata
consentita la produzione documentale che provi l’uso pubblico della strada.
La diversa disciplina giuridica sotto la quale una
fattispecie deve essere sussunta a seguito della sopravvenienza di un fatto
nuovo che la implica deve trovare immediata applicazione, sicché, se il fatto
sia sopravvenuto nella fase di merito dopo l'udienza di precisazione delle
conclusioni, il giudice deve rimettere la causa sul ruolo per consentire il
contraddittorio sui documenti prodotti a dimostrazione del fatto e non
dichiarare inammissibile la produzione stessa.
Nella
specie si tratta di documenti riguardanti una strada divenuta pubblica, fatto
idoneo a determinare l'applicazione di una diversa disciplina giuridica alle
distanze sulle costruzioni
(Cass.
civ., sez. II, 14 febbraio 1995, n. 1591, GCM,
1995, 341).
Non rileva ai fini della qualificazione
di una strada destinata ad uso pubblico la mera previsione portata in uno
strumento urbanistico di nuova destinazione di un terreno prima che il piano
venga attuato.
La mera previsione, in un piano
regolatore generale o in un programma di
fabbricazione, della destinazione di un terreno privato a strada
pubblica, o anche la destinazione di fatto ad uso pubblico di tale terreno, senza
la esecuzione di opere pubbliche di irreversibile trasformazione e la
conseguente appropriazione - cosiddetta acquisitiva - dell'immobile da parte
della pubblica amministrazione, non produce, infatti, di per sé, una
modificazione immediata del regime dei diritti immobiliari privati.
La strada, pertanto, deve considerasi
privata fino alla materiale realizzazione della strada coll’adozione dei
provvedimenti di espropriazione e di costruzione del manufatto.
Ai
fini dell'esonero dall'osservanza delle norme del c.c. concernenti le distanze tra costruzioni, l'esistenza di una
via pubblica si configura solo quando la
determinazione della p.a. di realizzarla si sia tradotta nella concreta
destinazione del suolo a tale scopo, mediante l'esplicazione della necessaria
attività, sia giuridica che materiale
(Cass.
civ., sez. II, 19 dicembre 1996, n. 11373, GCM,
1996, 1776).
Il proprietario confinante non può,
quindi, ritenere di essere esentato dal rispetto delle distanze legali sulla
base della mera previsione di piano regolatore.
La
previsione di piano non basta, pertanto, ad esimere il proprietario confinante
dal rispetto delle distanze legali, perché l'eccezionale deroga alla disciplina
delle distanze nelle costruzioni, di cui all'art. 879, 2° co., c.c., opera
esclusivamente per quelle che si fanno a confine di piazze o vie
propriamente pubbliche, secondo lo stretto significato che, nell'ordinamento,
ha la nozione di questa categoria di beni, esclusivamente riferibile alle vie o
piazze appartenenti ad un ente territoriale autarchico e, perciò, demaniali e
soggette a regime demaniale, ovvero realizzate su terreni gravati da diritto
pubblico di godimento al fine della circolazione, parimenti soggette al regime
della demanialità
(Cass.
civ. sez. II, 12 febbraio 1994, n. 1429, GCM,
1994, 148).
La giurisprudenza ha escluso che tale norma possa essere
applicata in relazione ai beni del demanio pubblico.
Il vigente codice civile non contiene, infatti, una
esplicita disposizione di legge che esenti i beni demaniali dal rispetto delle
distanze legali.
Non si può continuare a ritenersi valido il principio
sancito dall'art. 572 c.c., 1865, secondo il quale, appunto, i beni del demanio
pubblico - in ragione della loro natura
e funzione - erano esenti dall'osservanza delle distanze legali previste dal codice
medesimo nonché dai regolamenti comunali.
Ai
fini dell'applicabilità della speciale disciplina sulle distanze prevista dall'art. 879, 2° co., c.c., la nozione di strada ferrata non è in alcun modo
equiparabile a quella di piazze e vie pubbliche rigorosamente prevista dalla
norma medesima; rispetto alle opere ferroviarie coesistono perciò in materia di
distanze tanto le disposizioni del codice civile, quando quelle contenute in
leggi o regolamenti speciali, rispondendo ciascun sistema normativo ad un diverso scopo
(Cass.
civ., sez. I, 22 gennaio 1980 n. 492, GI,
1980, I, 1, 781).
La
dottrina rileva pertanto, che il privato frontista non alcun diritto azionabile
nei confronti di altro frontista che abbia violato le norme relative agli
edifci pubblici al fine di ottenere l’arretramento (Triola 1993, 694).
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