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Il giudice penale e l’accesso al procedimento
amministrativo.
La
rilevanza penale del comportamento omissivo del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di pubblico servizio conserva la sua autonomia rispetto alla
giustizia amministrativa.
Il
giudice di legittimità, pur partendo dalla premessa secondo cui la norma penale
dell’ art. 328, c.p. e quella amministrativa dell’art. 25, 4° co., l. n. 241/1990,
sono in perfetta sintonia tra loro, non ne trae i conseguenziali corollari, e
finisce con il ritenere, sul piano degli effetti giuridici, che la disciplina
amministrativa e quella penale rappresentino un doppio binario tendente alla
tutela, sotto diversi profili, del cittadino.
L'inosservanza
del precetto penale consente all'interessato di adire il giudice penale, mentre
la mancanza di un diniego espresso di accesso legittima, ai sensi dell'art. 25,
5° co., l. n. 241/1990, il ricorso al giudice amministrativo. (Tenore V., Omissione
di atti d'ufficio ed omessa risposta ad istanza d'accesso: una criticabile sentenza
della Cassazione , Nota a:Cassazione penale , 27/02/1997 n.
1672, sez. VI , in Foro Amm., 1998, 6, 1674).
L’esperimento
della procedura dell’accesso non comporta una automatica messa in atto della
diffida ad adempiere, che è necessaria per potere realizzare la fattispecie
prevista dal reato di omissione previsto dall’art. 328, 2° co., c.p.; il reato
di omissione di cui all’art. 328, 1° co., si realizza senza la necessità di
preventiva diffida.
Non
può sostenersi che, se il termine di trenta giorni dalla richiesta coincida con
il termine stabilito per il maturarsi del silenzio–rifiuto, ex art. 25, l. 241 del 1990, non sussista
il reato di cui all'art. 328, 2° co., c.p., se il pubblico ufficiale non compia
l'atto richiesto e non risponda al richiedente, perché con il silenzio-rifiuto
si avrebbe, sia pure una presunzione, il compimento dell'atto.
Il
silenzio - rifiuto, riferibile impersonalmente alla p.a., è una mera fictio
iuris, alla quale si fa ricorso per ovviare ad una situazione di stallo e
porre il cittadino nella condizione di sbloccare tale situazione e di ottenere
comunque una decisione sulla sua richiesta di accesso ai documenti.
A
monte del silenzio - rifiuto rimane sempre la condotta omissiva del pubblico
ufficiale, la quale connota d'illiceità lo stesso silenzio - rifiuto.
L'assunto
sopra prospettato condurrebbe alla conclusione che, in materia di accesso ai
documenti, la cosciente e volontaria inerzia del pubblico ufficiale che tale
accesso deve garantire rimarrebbe sempre priva di rilevanza penale, solo perché
la normativa amministrativa, ex art.
25 l. n. 241 del 1990, appresta il rimedio verso il silenzio della p.a., il che
confligge con il chiaro dettato dell'art. 328, 2° co., c.p. (Trib. Milano,
16.4.1999, in Foro Ambr., 1999,
273).
Le
funzioni dei due procedimenti perseguono comunque finalità diverse; mentre la
norma penale ha un chiaro intento repressivo, quella amministrativa tende a
realizzare dei mezzi di tutela che consentano il raggiungimento degli interessi
del richiedente.
Per la
giurisprudenza l'effetto penale obbedisce all'esigenza di reprimere quei
comportamenti del pubblico ufficiale che contravvengono al principio di
correttezza e buon andamento dell'attività della amministrazione; il rimedio
amministrativo, invece, assicura la possibilità di dare forza ed effettiva
attuazione al suo diritto di accesso ai documenti (Cass. pen., sez. VI,
8.1.1997, in Cass. Pen., 1997, 3019).
La dottrina
rileva come il dettato della l. 241/1990 non è coordinato con la norma penale
(Fiandaca F. e Musco E., Diritto penale.
Parte speciale 1997, 262).
Il reato è determinato
dall’inadempimento di un comportamento previsto dalle leggi del procedimento
solo in casi tassativamente determinati, ma nella sua previsione più generale
il reato è subordinato ad una particolare messa in mora dell’amministrazione che
ha l’obbligo a provvedere (Cerulli Irelli V., Corso
di diritto amministrativo, 1997, 478).
La
necessità di esperire, oltre al procedimento amministrativo, anche il
procedimento penale è sancito anche dalla giurisprudenza penale se si vuole
concretizza la fattispecie prevista dal reato.
Essa
afferma che per aversi omissione di atti di ufficio rilevante ai sensi
dell'art. 328, 2° co., c.p., in caso di richiesta di accesso a documenti
amministrativi, sono necessari la richiesta dell'interessato, l'inerzia del
pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio obbligato a
provvedere, la quale si sia protratta oltre trenta giorni dalla richiesta. A
tal punto sono necessari un'ulteriore richiesta dell'interessato con valore di
messa in mora e l'inutile decorso di altri trenta giorni da tale ultima istanza
senza che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbia
provveduto o, quantomeno, risposto per esporre le ragioni del ritardo (Trib. Avellino, 6.11.1997, in Giur.Merito,
1998, 474).
2 Il rifiuto di atti da compiere d’ufficio senza ritardo.
La
fattispecie penale contempla due distinte ipotesi che concretizzano il reato di
omissione.
La
prima ravvisa il reato nel mancato compimento di atti che devono essere compiuti
senza ritardo dal soggetto investito del
potere immediatamente, poiché risponde ad esigenze di carattere preminente.
La norma sanziona il
pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente
rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza
pubblica o di ordine pubblico o di igiene o sanità deve essere compiuto senza
ritardo con la reclusione da sei mesi a due anni, ex art. 328, c.p., mod. art. 16, l. 86/1990. (Romano M., I delitti contro la pubblica
amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, sub artt. 314-335 c.p., in Commentario sistematico,
2006, 324).
Nella
prima ipotesi il reato si realizza immediatamente nelle fattispecie
espressamente contemplate dalla norma. Essa delinea una fattispecie
caratterizzata da un doppio meccanismo limitativo in funzione di due limiti
tassativi espressi, nel difetto dei quali il rifiuto, sebbene continui ad
essere qualificabile come illecito ai fini amministrativi e/o civilistici,
diviene penalmente irrilevante: 1) deve trattarsi di atti qualificati, ossia di
comportamenti che ineriscono materie tassative, quelle della giustizia,
sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità: 2) ulteriore qualifica
dell'oggetto materiale della condotta è l'indilazionabilità dell'atto: solo gli
atti non ritardabili, indifferibili sono tali, se concernenti le anzidette
materie tassative, da far scattare la tutela penale rafforzata dell'art. 328,
1° co., c.p.
La fattispecie
di inottemperanza da parte del curatore fallimentare all'ordine del giudice
delegato del rendimento del conto della gestione a seguito della sua revoca, non
integra gli estremi del delitto di cui all'art. 328 c.p., sia perché non
costituisce un atto qualificato, sia perché nessuna norma penale o extrapenale
qualifica tale esibizione come indilazionabile o indifferibile (Trib. Bari,
1.6.2004).
La
giurisprudenza ha utilizzato un criterio restrittivo nell’identificare le
materie che devono ottenere un immediato adempimento e che quindi non
necessitano di diffida.
Per atto di ufficio
che per ragione di giustizia deve essere compiuto senza ritardo si intende
qualunque ordine o provvedimento autorizzato da una norma giuridica per la
tempestiva attuazione del diritto obiettivo e diretto a rendere possibile o più
agevole l'attività del giudice, del pubblico ministero o degli ufficiali di
polizia giudiziaria.
La ragione di
giustizia si esaurisce con l'emanazione del provvedimento di uno degli organi
citati, non estendendosi agli atti che altri soggetti sono tenuti eventualmente
ad adottare in esecuzione del provvedimento dato per ragione di giustizia. Ne
consegue che non attiene a una ragione di giustizia la mancata adozione, da
parte di un sindaco, dei provvedimenti di natura amministrativa relativi a
contravvenzioni stradali. (Cass. Pen., sez. VI, 25.1.2010, n. 14599 , in CED Cass. pen. , 2010, rv 246655).
3 Il rifiuto di atti d’ufficio previa diffida.
La
seconda ipotesi di reato per concretizzarsi necessita di una preventiva diffida
scritta cui non è stata data risposta né in termini provvedimentali né per
notiziare degli sviluppi procedimentali.
La
norma sanziona il pubblico ufficiale o
l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta
di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per
esporre le ragioni del ritardo, con la reclusione fino a un anno o con la multa
fino a 1032 euro.
Tale
richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni
decorre dalla ricezione della richiesta stessa, ex art. 328, c.p., mod. art. 16 l. 86/1990.
Per la dottrina
la norma configura, pertanto, un delitto di messa in mora (Fiandaca F. e Musco E., Diritto penale. Parte
speciale, 1997, 262).
La giurisprudenza
ha precisato che la diffida ad adempiere, trattandosi di "richiesta
ricevuta" dal funzionario pubblico, per rilevare ex art. 328, 2° co., c.p., oltre a doversi distinguere,
ontologicamente e temporalmente, dall'istanza diretta ad ottenere il
provvedimento, va correttamente "veicolata": è essenziale, quindi,
che sia indirizzata all'articolazione dell'amministrazione competente a
provvedere e che risulti giunta, con certezza, alla conoscenza del funzionario
responsabile, sicché è onere del denunciante allegare alla denuncia la prova
dell'inoltro della diffida e della materiale ricezione di questa da parte del
funzionario competente a provvedere.
Affinché
sorga per il pubblico funzionario l'obbligo di provvedere nel senso richiesto
dal privato, e dunque risulti "indebito" il comportamento omissivo o
ritardato del pubblico funzionario, è necessario che l'atto domandato sia un
atto dovuto, cioè vincolato, con esclusione di qualsiasi scelta sulla
possibilità di renderlo come di non renderlo, sia sui tempi sia sui modi della
sua emanazione. (Trib. Trani, 28.10.2004).
La giurisprudenza
precisa che per ravvisare il reato di omissione di atti d'ufficio, deve essere
stato omesso un atto dovuto, mentre nessuna violazione penale può configurarsi
nel caso in cui l'atto che si assume omesso o ritardato rientrasse nell'ambito
della discrezionalità amministrativa.
Finché
ci si muove nell'ambito della discrezionalità amministrativa gli amministratori
effettuano scelte delle quali rispondono in sede politica e amministrativa, ma
che sono esenti da sindacato penale (Trib. Trapani, 28.5.2003, in Giur. Merito,
2004, 760).
L’entrata
in vigore della modifica apportata dalla l. 86/1990 ha ridotto le fattispecie
punibili.
Anche
i fatti compiuti precedentemente, pur essendo punibili in base alla legge del tempus
commissi delicti, divengono non punibili, in forza dell’art. 2 c.p., in
base al novum ius (Cass. pen., sez. VI, 11.3.1992, in Giust. Pen.,
1992, II, 593).
L’omissione
sanzionata dall’art. 328, 2° co., c. p., richiede la diffida ad adempiere
ritualmente notificata, trattandosi di pubbliche amministrazioni, a mezzo di
ufficiale giudiziario.
La giurisprudenza
ha precisato che integra il reato di omissione di atti d'ufficio la condotta
del segretario comunale che, a fronte della richiesta di un consigliere
comunale di accesso agli atti, ometta di fornirgli e di rispondere nei termini
di legge, essendo irrilevante che gli atti richiesti non rientrino nelle
competenze deliberative del Consiglio.
In motivazione, la
Corte ha chiarito che il potere di sindacato ispettivo, di stimolo e controllo
sull'attività degli organi comunali previsto dall'art. 42 t.u.e.l. dà diritto
ai consiglieri di ottenere qualsiasi informazione necessaria per il suo
esercizio. (Cass. Pen., sez. VI, 8.4.2009, n. 21163 , in Cass. pen. , 2010, 5, 1806).
Il
cattivo coordinamento colla l.241/1990 presuppone un procedimento di diffida
del tutto autonomo con decorrenze diverse.
Per la dottrina
l’interessato può formulare la richiesta solamente dal momento in cui sia
spirato il termine previsto dalla legge per il regolare e valido compimento
dell’atto (Putinati S., Omissione. Rifiuto di
atti d’ufficio, in Dig. Disc. Pen., 1994, VIII,, 580).
Per la
giurisprudenza , invece, ai fini della integrazione del delitto di omissione di
atti d'ufficio, è irrilevante il formarsi del silenzio-rifiuto entro la
scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato. Ne consegue
che il "silenzio-rifiuto" deve considerarsi inadempimento e, quindi,
come condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie
incriminatrice.
La fattispecie è relativa
ad un'istanza presentata da un medico convenzionato all'A.S.L., al fine di
ottenere il pagamento delle proprie competenze retributive. (Cass. Pen., sez.
VI, 24/11/2009, n. 7348 , in CED Cass. pen. , 2010, rv 246025).
Integra il reato di
omissione d'atti di ufficio la mancata comunicazione, da parte della p.a.,
entro trenta giorni dalla richiesta dell'interessato, a norma dell'art. 5 della
l. 241 del 1990, dell'unità organizzativa competente e del nominativo del
responsabile del procedimento.
La Corte ha
precisato che siffatta intervenuta nomina del responsabile non esime il
superiore gerarchico dall'obbligo di comunicazione di cui sopra (Cass. Pen.,
sez. VI, 23.4.2009, n. 32837 , in CED Cass. pen.
2009, rv
244605).
Nel
caso in cui il ritardo sia addebitabile ad un organo collegiale la
responsabilità penale può configurarsi nei confronti dei singoli componenti e presuppone
una richiesta di messa in mora formulata ai singoli componenti (Cass. pen.,
sez. VI, 28.11.1997, n. 2320, in Guida
Dir. 1998, n.14, 90).
Ben
più severa è la posizione della giurisprudenza nei confronti delle eventuali
omissioni degli amministratori nell’attività comunale di vigilanza sugli abusi
edilizi.
In
tal caso si rientra nell’ipotesi di cui all’art. 328, 1° co. del c.p., poiché
l’atto di controllo è atto che deve essere compiuto senza ritardo.
Il
reato si realizza immediatamente. Si deve provare la conoscenza da parte del
sindaco della situazione di abusivismo, perché ad esempio la stessa gli è stata
comunicata da una o più persone o sia a lui personalmente nota per atti che gli
provengono dagli stessi uffici, e che il rifiuto ad adempiere o la mancata
risposta per esporre le ragioni del ritardo si sia protratto oltre il tempo
tecnico che richiede l’intervento repressivo.
Per
la giurisprudenza il sindaco è l’autorità cui è conferito per legge il potere
di vigilanza ed ha l’obbligo giuridico di intervenire con urgenza, tale
intervento non può essere inquadrato nell’attività discrezionale, bensì è
imposto dalla legge come atto dovuto (Cass. pen., sez. VI, 8.4.1986, in Cass.
Pen., 1987, 1525).
4 I limiti all’azione penale.
La
giurisprudenza ha posto degli ulteriori limiti all’azione penale richiedendo,
ai fini della configurabilità del reato di rifiuto di atti d'ufficio
nell'ipotesi prevista dall'art. 328, 2° co., c.p., che l'atto d'ufficio non
compiuto - in relazione al quale non siano fornite nel termine di legge, a
specifica richiesta della parte interessata, le ragioni del ritardo - sia un
atto dovuto, e quindi idoneo ad esprimere utilmente, e non in modo superfluo,
la posizione della p.a. nel rapporto con il privato.
Ne
consegue che non ogni richiesta di atto da parte del privato è idonea ad
attivare il meccanismo che può dar luogo alla configurabilità del reato de
quo, dovendosi tale idoneità riconoscere solo a quelle richieste che siano
funzionali ad un effettivo e doveroso dinamismo della p.a., si estrinsechi esso
in atti facoltativi, vincolati o comportanti una certa discrezionalità, sempre
che trattisi di atti costituenti comunque espressione di un preciso dovere
legale del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio.
Per
la giurisprudenza il reato previsto dall'art. 328, 2° co., c.p., è da escludere
quando - come nel caso della richiesta di accesso a documenti disciplinati
dall'art. 25, d. l. n. 241 del 1990 - la mancata risposta alla richiesta del
privato nel medesimo termine previsto dalla norma penale (30 giorni), dia luogo
a silenzio - rifiuto perché quest'ultimo equivale, sia pure per presunzione, al
compimento dell'atto e viene comunque a determinare una situazione concettuale
incompatibile con l'inerzia della p.a.
Vi è
la necessità, quindi, di una messa in mora della stessa da parte del privato,
il quale è posto in grado di apprezzare concretamente il risultato
dell'attività amministrativa alla quale è interessato e di assumere le
eventuali iniziative del caso.
Nella
specie, in applicazione di detti principi, la Suprema Corte ha ritenuto
corretta la decisione del giudice di merito che aveva escluso la
configurabilità del reato a carico di taluni dirigenti di una USSL i quali non
avevano dato riscontro alle ripetute richieste di una dipendente volte ad
ottenere chiarimenti ed atti concernenti la sua posizione giuridica,
segnatamente con riguardo alle mansioni che le erano state affidate da lei
ritenute non compatibili con il suo profilo professionale (Cass. pen., sez. VI, 6.10.1998, n. 12977, in Dir.
Pen. Proc, 1999, 1145).
Tale
impostazione tende a negare la tutela penale laddove sia possibile esercitare
l’azione amministrativa ad exhibendum di modo che l’esercizio
dell’azione amministrativa diventa alternativo a quello dell’azione penale.
L’orientamento
non è condiviso dalla migliore dottrina che ritiene come la possibilità di
un’azione amministrativa non possa escludere l’esercizio di quella penale
trattandosi di azioni che sono completamente autonome aventi presupposti del
tutto diversi.
Essa
rileva che diversamente si debba
concludere per quanto afferisce al caso di cui all’art. 25, 4° co., l. 241/1990.
La
norma al pari dell’istituto del silenzio di cui all’art. 2, l. 241/1990, forgia
il silenzio come rimedio all’arbitraria violazione dell’obbligo di pronunciarsi
espressamente da parte degli amministratori ai soli fini di consentire al
privato l’immediata tutela giustiziale e giurisdizionale amministrativa.
Viene
in sostanza in rilievo una semplice fictio iuris che nulla sposta in
merito all’offensiva penale della condotta.
Una
diversa opzione interpretativa attribuirebbe al funzionario adito la comoda
possibilità di trincerarsi dietro il congegno finzionistico del silenzio
quand’anche si tratti in concreto di richiesta di accesso costituente
esplicazione di diritto soggettivo nella fattispecie sorretta da tutti gli
elementi giustificativi (Sempreviva M.T., L’accesso ai documenti amministrativi,
in Caringella F. (a cura di) Corso di diritto amministrativo, 2004,
1995).
La
rilevanza penale non è, però, esclusa dall’esperimento del rimedio
amministrativo qualora l’inadempimento del pubblico ufficiale sia fatto valere
nei termini della preventiva diffida a provvedere per atti di cui l’istante
abbia interesse.
La
rilevanza penale del comportamento omissivo del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di pubblico servizio non viene, per così dire, vanificata dalla
previsione del rimedio amministrativo anche contro il semplice silenzio e
conserva la sua autonomia rispetto a tale rimedio.
L'effetto
penale obbedisce all'esigenza di reprimere quei comportamenti del pubblico
ufficiale che contravvengono al principio di correttezza e buon andamento
dell'attività della p.a.
Il
rimedio amministrativo, invece, assicura la possibilità di dare forza ed
effettiva attuazione al suo diritto di accesso ai documenti (Cass. pen., sez. VI, 8.1.1997, in Cass. Pen.,
1997, 3019).
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