Palazzo Tintoretto.
Angelo
nel gennaio del 1921 aveva deciso che era giunto il momento di ritornare, visto
che la guerra era finita e che a Venezia
vi erano condizioni di lavoro più
favorevoli, per il maggior benessere della sua famiglia.
I
Gherardi possedevano una vecchia casa a Cannaregio in Fondamenta dei Mori dove
si era liberato un appartamento.
Quella
Venezia minore piaceva molto soprattutto alla Roma; era lontana dai turisti ed
era abitata solo dai veneziani.
I
veneziani erano allegri “ciacoloni” sempre pronti a ridere e a scherzare
soprattutto davanti ad un’ombra di vino bianco.
I Gherardi erano diventati proprietari di questa augusta dimora un po'
decaduta, ma molto veneziana con la sua trifora al secondo piano che si
affacciava al Rio della Sensa.
In
quella casa aveva vissuto Jacopo Robusti, un famoso pittore veneziano del
millecinquecento.
Ad
Angelo piaceva la casa del Tintoretto; sapeva vagamente che Robusti era stato un famoso pittore ed aveva
abitato e tenuto bottega proprio in quella casa.
Era
andato a vedere le grandi tele dipinte dal Tintoretto alla Madonna dell’Orto e
alla Scuola Grande di San Rocco, su pressione della Roma, ed era onorato di
vivere in quella casa, ma non se ne vantava.
Ad
Angelo piaceva soprattutto affacciarsi sul pergolo, che guardava sul canale, al
tramonto e fissare il sole che degradava sulla striscia d’acqua del rio. Era
per lui un momento magico con quella luce calda che poteva seguire lontano fino
ai margini della laguna e ancora più in là verso spazi tutti da immaginare.
Gli
piacevano di Venezia l’odore dei canali, le risa delle persone, la confusione
dei bacari dove si fermava volentieri per bere un ombra in compagnia degli
amici, il vociare festoso dei turisti che cominciavano ad affluire in città.
Non era più solo nelle valli Bergamasche, isolato, lontano dai centri più
abitati della pianura.
Angelo
era entrato anche nella gestione del negozio di famiglia dei Gherardi.
Vendevano
generi alimentari: farine, formaggi, salami, prosciutti, avevano poi delle
olive nere buonissime .
A Giani
piacevano tanto; quando andava al negozio immancabilmente se ne mangiava
qualcuna tanto che la Roma lo burlava: “ Ti me magni tute le olive ostrega!”.
Il
negozio era sotto la casa in campo dei Mori proprio: “Casa e botega.”
Si
diceva così quando il posto di lavoro era vicinissimo all’abitazione.
Quella
attività aveva consentito alla famiglia di prosperare. Loro erano dei piccoli
commercianti che col lavoro di una generazione avevano trovato uno spazio nella
città.
La
vita economica a Venezia era ripresa con la Biennale d’arte iniziata nel 30.
Grazie
ai finanziamenti nazionali la città aveva acquistato un rilievo importantissimo
fra le manifestazioni culturali dell’epoca.
Soprattutto
con l’avvio della mostra del Cinema, che era nata nel 32 per iniziativa del
Conte Volpi di Misurata, il creatore di Porto Marghera, le prenotazioni dei
turisti al Lido avevano ripreso a salire
dando impulso al turismo nella città del Leone.
Tutti
erano in fermento per l’inaugurazione della Mostra del cinema che si diceva
avrebbe riportato i turisti nella città del Leone.
All’oratorio
della Madonna dell’Orto Giani giocava a
calcio.
Il
parroco era proprio bravo aveva realizzato nell’oratorio per i ragazzi un campo
di calcio che per la città era proprio una rarità.
I
ragazzini potevano scatenarsi a prendere a calci il pallone tutto il santo
giorno.
Angelo
invece si era inserito nella banda municipale dove aveva trovato subito posto
colla sua tromba.
Angelo
era orgoglioso del suo strumento che la Roma teneva sempre lucido
accarezzandolo tutti i giorni con una pelle di daino.
Giani
andava d’accordo col fratello Bepi che era un po’ più grande di lui e
sicuramente meno tranquillo.
Giuseppe
aveva due passioni: le donne e le moto.
Dopo
che era riuscito ad acquistare a poco prezzo una G.T., la famosa
Norge che aveva compiuto l’impresa del raid a capo Nord, Bepi era sempre
in giro a correre per la provincia di Venezia e aveva uno straordinario
successo con le ragazze.
Giani
non si preoccupava e non si faceva un cruccio se doveva supplire qualche volta
anche ai suoi turni di lavoro.
Giani
era buono.
“
Ti xe tre volte bon” gli diceva la Roma sottolineando che la sua generosità
sconfinava quasi nella dabbenaggine.
Lui
non si curava delle critiche ed agiva come il suo cuore gli comandava.
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