1 Codice
ambiente. Parte IV Titolo I Capo I Gestione rifiuti.
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Ambiente. Abbandono
rifiuti. Responsabilità proprietario.
È escluso che al proprietario delle aree
inquinate possa essere legittimamente impartito un ordine di rimozione dei
rifiuti sulla base della generica culpa in vigilando.
Il consolidato orientamento giurisprudenziale ha
escluso che al proprietario delle aree inquinate possa essere legittimamente
impartito un ordine siffatto sulla base della generica "culpa in
vigilando". T.A.R. Potenza, sez. I 501/2012.
In fatti l'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 ai
fini dell'imputabilità della condotta del divieto di abbandono e di deposito
incontrollato di rifiuti sul suolo, richiede, a carico del proprietario o dei
titolari di diritti reali o personali sul bene, un comportamento a titolo di
dolo o di colpa , così come richiesto per l'autore materiale e quindi collegato
da nesso causale diretto alle operazioni materiali da cui è originato il
deposito in loco dei rifiuti, che non è assolutamente ravvisabile nella
totalmente diversa fattispecie del loro mancato asporto durante previe
operazioni di pulizia effettuate da altri responsabili o comunque a seguito
della segnalazione della loro presenza, che è in sostanza quanto addebitato dal
Comune alla Regione nel caso di specie T.A.R. Friuli Venezia Giulia Trieste,
sez. I, 07/02/2013, n. 56.
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Ambiente. Divieto di
abbandono. Competenza del Sindaco.
La giurisprudenza ammesso la competenza
sindacale, e non dirigenziale, in relazione all'ordine di rimozione dei
rifiuti, emesso dal dirigente comunale ex art. 192 del d.lgs. 152/2006.
Stabilisce, infatti, il comma 3 dell'art. 192 del
d.lgs. 152 del 2006 che chiunque viola i divieti di abbandono e deposito
incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo, "è tenuto a procedere alla
rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia
imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo.
Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il
termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate."
Tale norma, che sancisce la competenza sindacale
in luogo di quella dirigenziale, viene interpretata, dalla giurisprudenza
maggioritaria, quale norma speciale rispetto all'art. 107 del T.U. enti locali
che affida ai dirigenti i compiti relativi alla gestione delle attribuzioni
amministrative dell'ente locale. Cons. St., sez. V, 29 agosto 2012, n. 4635.
Infatti, non può essere accolta la tesi, ormai
minoritaria in giurisprudenza, in base alla quale essendo tale norma, in parte
qua, riproduttiva del precedente art. 14, d.lgs. n. 22 del 1997, essa andrebbe
applicata nell'interpretazione datane dalla giurisprudenza che attribuisce la
relativa potestà ordinatoria ai dirigenti, in base all'ordine di competenze,
fra livello dirigenziale e politico, delineato dall'art. 107 T.U. Enti locali.
Tale costrutto logico non è condivisibile (cfr.
Cons. St. 3675/2009) perché:
a) è insuperabile il dato testuale dell'art. 192,
co. 3, secondo periodo, che fa riferimento espresso al " Sindaco";
b) trova applicazione, per il caso di conflitto apparente
di norme, il tradizionale canone ermeneutico lex posterior specialis derogat
anteriori generali;
c) lo stesso art. 107, co. 4, ha cura di
precisare che "Le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del
principio di cui all'art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto
espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative", che è
quanto verificatosi a seguito dell'entrata in vigore della norma sancita
dall'art. 192, co. 3, cit., sicuramente speciale rispetto all'ordine generale di
competenze previsto dall'art. 1, co. 4, e 107, co. 2, T.U. enti locali. T.A.R. Sicilia Palermo, sez. II 04/06/2013 n. 1218.
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Ambiente. Potere di
Ordinanza.
Il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 191, prevede che:
"1. Ferme restando le disposizioni vigenti in materia di tutela
ambientale, sanitaria e di pubblica sicurezza, con particolare riferimento alle
disposizioni sul potere di ordinanza di cui alla L. 24 febbraio 1992, n. 225,
art. 5 istitutiva del servizio nazionale della protezione civile, qualora si
verifichino situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della
salute pubblica e dell'ambiente, e non si possa altrimenti provvedere, il
Presidente della Giunta regionale o il Presidente della provincia ovvero il
Sindaco possono emettere, nell'ambito delle rispettive competenze,per
consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti,
anche in deroga alle disposizioni vigenti, garantendo un elevato livello di
tutela della salute e dell'ambiente, ordinanze contingibili ed urgenti per consentire
il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga
alle disposizioni vigenti, garantendo un elevato livello di tutela della salute
e dell'ambiente.
Dette ordinanze sono comunicate al Presidente del
Consiglio dei Ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio, al Ministro della salute, al Ministro delle attività produttive, al
Presidente della regione e all'autorità d'ambito di cui all'art. 201 entro tre
giorni dall'emissione ed hanno efficacia per un periodo non superiore a sei
mesi."
L'art. 191, comma 4 nella originaria
formulazione, stabiliva inoltre che "4. Le ordinanze di cui al comma 1 non
possono essere reiterate per più di due volte. Qualora ricorrano comprovate
necessita1, il Presidente della regione d'intesa con il Ministro dell'ambiente
può adottare, sulla base di specifiche prescrizioni, le ordinanze di cui al
comma 1 anche oltre i predetti termini.
Ciò posto è incontestato che il D.L. 23 del 2008,
art. 9, comma 8 ha modificato l'art. 191, comma 4 sostituendo l'espressione
"Le ordinanze di cui al comma 1 non possono essere reiterate per più di
due volte" con quella "Le ordinanze di cui al comma 1 possono essere
reiterate per un periodo non superiore a 18 mesi per ogni speciale forma di gestione
dei rifiuti".
Sostiene il ricorrente la legittimità
dell'intervento del sindaco in quanto: a) vi era ancora margine temporale per
disporre nuove proroghe in via d'urgenza avendo il legislatore chiarito con il
suo intervento che l'aspetto rilevante era unicamente il rispetto del limite
complessivo dei 18 mesi di efficacia delle deroghe; b) sussisteva comunque in
capo al sindaco il potere di disporre nel senso indicato.
La corte d'appello ha escluso la sussistenza
delle condizioni di intervento del sindaco sotto un duplice profilo. Per un
verso sostiene, infatti, la mancanza di un potere in tal senso per le ragioni
in precedenza esposte e per altro verso l'assenza delle condizioni
indispensabili per il conferimento dei rifiuti in discarica.
Il tenore letterale della disposizione dell'art.
191 non lascia dubbi sul fatto che al presidente della Regione, a quello della
Provincia ed al sindaco il potere di disporre in via di urgenza per consentire
il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga
alle disposizioni vigenti, debba essere riconosciuto nell'ambito delle
rispettive competenze.
Nella specie correttamente la corte di merito ha
evidenziato tale aspetto sottolinenando che l'autorità competente a provvedere
in via ordinaria sull'urgenza era certamente il Presidente della Provincia il
quale, infatti, a riprova di ciò aveva già emesso due provvedimenti d'urgenza,
esaurendo così ogni sua ulteriore possibilità di intervento.
Sempre dal tenore letterale della disposizione si
rende poi evidente che, a fronte del diniego di quest'ultimo di emettere un
ulteriore provvedimento di proroga del conferimento in discarica, così come
richiesto dal Comune, la strada era obbligata nel senso che, come previsto
dall'art. 191, comma 4 e come correttamente indicato dalla Provincia al Comune,
della questione si sarebbe dovuto investire il Presidente della regione
Questo, d'intesa con il Ministro dell'ambiente,
avrebbe potuto adottare, sulla base di specifiche prescrizioni, le ordinanze di
cui al comma 1 anche oltre i termini ivi stabiliti.
Nessun potere interinale è previsto per il
sindaco dall'art. 191 ed a fortiori si deve escludere il potere di agire di
quest'ultimo nel caso in cui - come nella specie - il Presidente della
Provincia abbia legittimamente ritenuto, in base alle disposizioni all'epoca
vigenti, di non potere ulteriormente intervenire in via d'urgenza.
E' del tutto ragionevole, infatti, che il vaglio
circa le ragioni dell'urgenza e la necessità di derogare alle limitazioni
previste per la regolamentazione d'urgenza, in considerazione della natura dei
rischi e dei pericoli da fronteggiare, debba necessariamente essere affidato ad
una valutazione congiunta di Regione e Ministero dell'Ambiente per la
delicatezza degli interessi da tutelare.
Le innovazioni apportate con il D.Lgs. n. 152 del
2006, art. 191, comma 1 pur ricalcando la precedente disposizione in ordine
alla competenza degli organi deputati a provvedere in via d'urgenza, la nuova
disposizione pone come limite generale al potere di intervento non più, come
indicato dall'art. 13, la condizione che non vi siano "conseguenze di
danno o di pericolo per la salute e per l'ambiente", bensì quella che sia
garantito "un elevato livello di tutela della salute e
dell'ambiente." E' logico ritenere, quindi, che la valutazione circa le
conseguenze sulla salute debbano essere affidate alla competenza della Regione
che agisce d'intesa con lo Stato. Cassazione penale, sez. III, 16/05/2012, n. 30125.
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Ambiente. Responsabilità
del produttore finché i rifiuti non siano conferiti a soggetti autorizzati .
In tema di abbandono di rifiuti, è ipotizzabile a
carico del produttore dei rifiuti un titolo di responsabilità concorsuale
omissiva nella condotta commissiva dell'autore dell'abbandono, in ragione della
violazione colposa degli obblighi di sorveglianza nascenti dalla posizione
qualificata di garanzia connessa, appunto, alla produzione dei rifiuti e
sorretta, in termini generali, dalla previsione dell'art. 188 d.lg. n.
152/2006, che, in ossequio al fondamentale principio " chi inquina paga ", sancisce la
responsabilità del produttore e detentore iniziale dei rifiuti per l'intera
catena di trattamento degli stessi, fino a quando i rifiuti medesimi non siano
conferiti al servizio pubblico di raccolta,
ovvero a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento.
T.A.R. Toscana Firenze, sez. II, 05/10/2011, n. 1443.
Integra il
reato previsto dall'art. 259 d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 la spedizione di
rifiuti all'estero senza che il soggetto esportatore ed originatore di essi,
responsabile del carico fino all'arrivo a destinazione, sia munito della
apposita licenza ASQIQ di registrazione per le imprese straniere fornitrici dei
rifiuti destinati all'importazione. Cassazione penale, sez. III, 04/07/2012, n.
11837.
La responsabilità per la corretta gestione dei
rifiuti grava su tutti i soggetti coinvolti nella loro produzione, detenzione,
trasporto e smaltimento, essendo detti soggetti investiti di una posizione di
garanzia in ordine al corretto smaltimento dei rifiuti stessi.
La responsabilità può gravare anche sul soggetto
che ha svolto unicamente il ruolo di trasportatore dei rifiuti presso un
impianto di stoccaggio, laddove detto impianto sia risultato privo delle
prescritte autorizzazioni. Occorre tener conto, infatti, dei principi generali
di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nel
ciclo afferente alla gestione dei rifiuti, ai sensi del combinato disposto di
cui agli art. 178 e 188, d.lg. n. 152/2006, e più in generale dei principi
dell'ordinamento nazionale e comunitario, con particolare riferimento al
principio comunitario "chi inquina paga", di cui all'art. 174, par.
2, del trattato, e alla necessità di assicurare un elevato livello di tutela
dell'ambiente, esigenza su cui si fonda, appunto, l'estensione della posizione
di garanzia in capo ai soggetti in questione.
E’ legittima l'ordinanza sindacale rivolta a tale
società, affinché provveda alla rimozione ed allo smaltimento dei rifiuti dalla
stessa abbandonati, in quanto la ratio ispiratrice della norma è quella di evitare
la contaminazione dell'ambiente a causa del contatto diretto con il rifiuto,
prevedendo l'obbligo della rimozione e del ripristino da parte del responsabile
dell'illecito (nella fattispecie, ad una società incaricata di trasportare
rifiuti è stata rivolta un'ordinanza di sgombero e smaltimento degli stessi per
averli abbandonati, in quanto li aveva conferiti in un impianto privo delle
autorizzazioni previste). T.A.R. Veneto Venezia, sez. III, 24/11/2009, n. 2968.
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Ambiente . Sottoprodotto .
La definizione normativa di « sottoprodotto », quale strumento
per sottrarre dal regime dei rifiuti alcuni materiali e sostanze altrimenti da
considerare come tali, è stata per la prima volta introdotta nel nostro
ordinamento con l'art. 183, comma 1, lett. n) del
D.Lgs. 152/2006 (T.U. ambiente) .
Si tratta di uno dei (pochi) casi in cui il
legislatore italiano è riuscito ad anticipare quello comunitario, se si pensa
che la nozione di sottoprodotto la si rinviene per la prima volta solo
nella direttiva quadro 2008/98/CE in materia di rifiuti.
Attualmente, per il combinato disposto degli
artt. 183, comma 1 lett. qq) e 184 bis del T.U. ambiente (aggiunti dall'art.
12, comma 1 del D.Lgs. 205/2012), è sottoprodotto qualsiasi sostanza o oggetto
che soddisfa tutte le condizioni elencate nel citato art. 184 bis, comma 1,
dovendosi altresì ricordare che, in base al comma 2 dello stesso articolo, « possono essere adottate misure per stabilire
criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie
di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti.
All'adozione di tali criteri si provvede con uno
o più decreti del Ministro dell'ambiente in conformità a quanto previsto dalla
disciplina comunitaria » .
In base alla
definizione di sottoprodotto l'utilizzo del materiale in un nuovo ciclo
produttivo deve essere certo sin dal momento della sua produzione, dovendosi
dimostrare una preventiva organizzazione alla sua riutilizzazione, circostanza
che non sussiste in caso di utilizzo meramente eventuale e non integrale di
materiali eterogenei derivanti da attività di produzione non industriale.
Integra il reato previsto dall'art. 256 d.lg. 3 aprile 2006, n. 152 l'abbandono
incontrollato di residui da demolizione, che vanno qualificati come rifiuti
speciali e non materie prime secondarie o sottoprodotti.
Nel caso di specie,
la Corte ha ritenuto la correttezza dell'affermazione della responsabilità
penale, non essendo stato dimostrato che i materiali abbandonati - quali
pietrame, impianti elettrici ed igienico-sanitari, elementi ferrosi e legnosi,
nonché pneumatici usurati - fossero destinati, sin dalla loro produzione,
all'integrale riutilizzo per la riedificazione senza trasformazioni preliminari
o compromissione della qualità ambientale. Cassazione penale, sez. III,
17/01/2012, n. 17823.
Per qualificare le
terre e le rocce da scavo come sottoprodotto, l'art. 186 del d.lg. 3 aprile
2006 n. 152, a seguito dell'abrogazione disposta dall'art. 39, comma 4, del
d.lg. 3 dicembre 2010 n. 205, ha assunto la natura di norma transitoria,
destinata ad applicarsi ai fatti commessi fino all'entrata in vigore del
prescritto d.m. di attuazione. Cassazione penale, sez. III, 04/07/2012, n.
33577.
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Ambiente. Rifiuti. Ecopiazzole.
La definizione delle cosiddette
"ecopiazzole" o "isole ecologiche" è stata introdotta nel
D.Lgs. n. 152 del 2006 ad opera del D.Lgs. n. 4 del 2008 (in vigore dal
13.2.2008), il quale ha disposto, con l'art. 2, comma 20, la modifica dell'art.
183 del "codice ambientale", il quale alla lett. cc) contemplava i
"centri di raccolta". Ciò è verosimilmente avvenuto, come osservato
da accorti commentatori, in ragione dei principi fissati dalla giurisprudenza
di questa Corte e di cui meglio si dirà successivamente.
A seguito delle modifiche poi apportate alla
richiamata disposizione, la definizione di "centro di raccolta" è ora
contenuta nella lettera mm) del citato articolo, nella quale si legge che si
intende come tale un'"area presidiata ed allestita, senza nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica, per l'attività di raccolta mediante
raggruppamento differenziato dei rifiuti urbani per frazioni omogenee conferiti
dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento".
Il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183 stabiliva,
fin dall'origine, che alla disciplina dei centri di raccolta doveva provvedersi
con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del
mare, sentita la Conferenza unificata Stato - Regioni, città e autonomie
locali, di cui al D.Lgs. n. 28 agosto 1997, n. 281.
Ciò avveniva con il D.M. 8 aprile 2008, recante
"Disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo
differenziato, come previsto dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma
1, lett. cc), e successive modifiche" (in G.U. n. 99 del 28.4.2008) nel
quale i "centri di raccolta" venivano individuati nell'art. 1.
I titoli abilitativi richiesti venivano indicati
nel successivo art. 2, che individuava anche la disciplina transitoria per i
centri già in attività, mentre gli allegati fornivano l'indicazione dei
requisiti tecnico - gestionali dei centri medesimi ed i modelli di "scheda
rifiuti". Deve escludersi che, al di fuori dell'ipotesi contemplata dal
legislatore, la predisposizione di aree attrezzate per il conferimento di
rifiuti astrattamente riconducibili ad un generico concetto di "eco
piazzola" o "isola ecologica" possa ritenersi sottratta alla
disciplina generale sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha
definitivamente delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, una regime
autorizzatorio e gestionale che consente il conferimento ai centri di raccolta
di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata. In tutti i casi in cui non
vi sia corrispondenza con quanto indicato dal legislatore dovrà procedersi ad
una valutazione dell'attività posta in essere secondo i principi generali in
materia di rifiuti (rigettato, nella specie, il ricorso promosso da un
dirigente comunale condannato per aver adibito a deposito di rifiuti anche
pericolosi un'area di 6.000 metri quadrati di proprietà comunale, in assenza di
titolo abilitativo).Cassazione penale, sez. III, 11/12/2012, n. 1690.
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Ambiente . Deposito temporaneo rifiuti.
Secondo il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art.
183, lett. bb (testo attualmente in vigore) per deposito temporaneo si intende
"Il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo
in cui gli stessi sono prodotti ...".
La giurisprudenza ha affrontato il problema del
significato dell'espressione "luogo di raccolta" adoperata dal
legislatore ed ha in proposito affermato che in tema di gestione dei rifiuti,
il luogo di produzione dei rifiuti rilevante ai fini della nozione di deposito
temporaneo ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett.
m) non è solo quello in cui i rifiuti sono prodotti ma anche quello in
disponibilità dell'impresa produttrice nel quale gli stessi sono depositati,
purchè funzionalmente collegato a quello di produzione (Cass. Sez. 3, sentenza
n. 45447 del 30.9.2008.
Nel caso di specie, è stato accertato che il
cassone contenente i tubi di amianto dismessi si trovava nel piazzale del
Consorzio: cioè in un luogo sicuramente nella disponibilità dell'impresa
produttrice (il Consorzio stesso) e quindi, secondo l'interpretazione di cui
sopra, nel luogo di produzione.
Tuttavia, anche ritenendo - secondo
l'interpretazione corretta - che i rifiuti si trovassero nel luogo di raccolta,
la pronuncia impugnata non merita censura laddove ha escluso la liceità del
deposito, perchè, richiamando la motivazione del primo giudice, ha comunque
evidenziato - attraverso un accertamento in fatto privo di vizi logici e come
tale incensurabile in questa sede - che l'unico accorgimento adottato per
prevenire pericoli derivanti dalla dispersione della pericolosa sostanza era
costituito da un telo di plastica lacerato in più punti.
Chiunque poteva accedere al sito e che il
contenitore era poggiato sul terreno in prossimità di una vasca per la raccolta
e la successiva distribuzione dell'acqua consortile. Ha quindi concluso per
l'assenza di presidi di sicurezza. Cassazione
penale, sez. III 23/01/2013 n. 8061.
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Ambiente . Smaltimento
rifiuti.
I rifiuti urbani non pericolosi devono essere
gestiti solo in ambito regionale (argomento ex art. 182 comma 3 D. L.vo 152/06.
T.A.R. Piemonte Torino, sez. I, 30/08/2012, n. 987.
Il principio di libera circolazione valevole per
quella frazione di essi destinata al recupero costituisce dunque una deroga ad
un divieto generale che deve essere fatta oggetto di stretta interpretazione;
che l'attività di recupero dei rifiuti urbani non pericolosi crea un carico
impiantistico e genera una quantità di prodotti che per rientrare nel concetto
di "prodotto secondario" devono avere un effettivo valore economico e
di scambio e debbono rispondere a criteri di sicurezza e merceologici ben
determinati: una attività di recupero di rifiuti, quindi, non garantisce necessariamente
la completa reimmissione in commercio del rifiuto trattato e perciò reca in sé
il rischio di gravare l'ambito territoriale interessato di un non preventivato
quantitativo di rifiuti urbani non pericolosi soggetto a smaltimento ma
proveniente da fuori regione.
Tale considerazione vale, in particolare, con
riferimento al compost, che, stante l'ormai sempre più accentuata sproporzione
esistente tra offerta e domanda, in mancanza di politiche mirate non viene così
facilmente ricollocato sul mercato, rimanendo giacente negli impianti di
compostaggio, che poi nel tempo debbono ampliarsi.
A tale inconveniente si può far fronte solo
approntando un programma di utilizzazione del compost, ad esempio prevedendone
l'utilizzo in larga scala per il recupero ambientale di determinate cave o
discariche, o per la realizzazione di stadi o di giardini pubblici. Nell'ambito
delle previsioni regionali che autorizzino, in deroga al principio di
prossimità, l'apertura di impianti di recupero di rifiuti di provenienza
"esterna" dovrebbero quindi trovare posto, auspicabilmente, anche
delle prescrizioni tendenti a garantirne l'effettivo riutilizzo.
La allocazione di impianti destinati al recupero
di rifiuti urbani non pericolosi, di qualsiasi provenienza, debba essere presa
in considerazione dalla programmazione regionale di settore.
Indiretta conferma in tal senso si trae anche
dall'art. 5 comma 3 del D. L. 263/06, che ha attribuito al Commissario delegato
per la gestione della emergenza dei rifiuti in Campania il potere di
"disporre, d'intesa con le regioni interessate, lo smaltimento ed il
recupero fuori regione, nella massima sicurezza ambientale e sanitaria, di una
parte dei rifiuti prodotti"
La norma non distingue tra le varie tipologie di
rifiuti prodotti, e così implicitamente riconosce che anche il recupero fuori
regione di rifiuti urbani non pericolosi debba passare - nonostante il
principio di libera circolazione - attraverso un atto di intesa con le regioni
"riceventi".
Una tale limitazione risulti inserita in una
legislazione emergenziale come quella che riguarda lo smaltimento dei rifiuti
della Regione Campania, legislazione che proprio in ragione della situazione di
emergenza che affligge questo territorio favorisce in generale lo smaltimento
dei rifiuti ivi prodotti fuori regione: se ne deduce che anche per il
legislatore il principio di libera circolazione dei rifiuti urbani non pericolosi
destinati al recupero non esclude che tale attività debba conciliarsi con la
programmazione di settore regionale e provinciale.
L'art. 181 comma 5 del D. L.vo 152/06 deve quindi
essere letto tenendo presente che comunque la allocazione degli impianti di
recupero dei rifiuti urbani non pericolosi deve rispettare le previsioni
regionali: queste ultime possono derogare al principio di prossimità
consentendo l'insediamento di impianti destinati al trattamento di rifiuti
urbani non pericolosi provenienti da località esterne all'a.t.o. ed alla
Regione di interesse; ma ove simili previsioni facciano difetto la allocazione
di simili impianti non può ritenersi consentita.
Opinare diversamente significherebbe ammettere che la politica di gestione dei
rifiuti rimanga affidata ai singoli gestori degli impianti, il che non si può
evidentemente accettare in una materia in cui la programmazione e la
coordinazione degli interventi è di fondamentale importanza.
10 Ambiente . Rifiuti
materiali di demolizione.
I materiali inerti di composizione eterogenea
(nella specie, un miscuglio di cotto, cemento e calcestruzzo), sottoposti a
procedimento di macinatura e non destinati ad attività di recupero, non sono
assoggettati alla disciplina delle materie prime secondarie, ma costituiscono
veri e propri rifiuti. Cassazione penale, sez. III, 16/05/2012, n. 25206.
Ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art.
184, comma 3, lett. b), - sono rifiuti speciali "i rifiuti derivanti dalle
attività di demolizione, costruzione .
Il fresato di asfalto proveniente dal
disfacimento del manto stradale rientra nella definizione dei materiale
proveniente da demolizioni e ricostruzioni, incluso nel novero dei rifiuti
speciali non pericolosi" (vedi Cass., Sez. 3, 12.1.2011, n. 16705, Manetta).
n relazione ai residui delle attività di
demolizioni edili e del loro reimpiego, la giurisprudenza ha ritenuto possibile il loro riutilizzo,
nello stesso od in diverso ciclo produttivo, solo quale attività di recupero (così
Cass., Sez. 3: 9.7.2004, n. 30127, Piacentino;
Con le sentenze 9.10.2006, n. 33882, Barbati; 12
la giurisprudenza ha rilevato che il
materiale proveniente da demolizioni non può qualificarsi "materia prima
secondaria", ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 181, commi 6 e 13;
Con la sentenza 7.4.2008, n. 14323, Coppa, la
giurisprudenza ha affermato il principio
secondo il quale i materiali di risulta da demolizione di edifici e scavi di
cantiere possono essere qualificati "sottoprodotti", ai sensi del
D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, lett. n), soltanto a condizione che:
- il loro utilizzo sia certo e avvenga
direttamente ad opera dell'azienda che li produce;
- gli stessi materiali non vengano sottoposti a
trasformazioni preliminari;
- l'utilizzazione non comporti condizioni
peggiorative per l'ambiente o la salute;
Con la sentenza 29.4.2011, n. 16727, Spinello, la
giurisprudenza ha ribadito che i
materiali provenienti da demolizioni rientrano nel novero dei rifiuti in quanto
oggettivamente destinati all'abbandono; il recupero è condizionato a precisi
adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque,
cose di cui il detentore ha l'obbligo di disfarsi. L'eventuale assoggettamento
di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina
ordinaria implica la dimostrazione, da parte di chi io invoca, della
sussistenza di tutti presupposti previsti dalla legge.
Nella vicenda in esame i residui oggetto di
contestazione non possono essere considerati "materia prima
secondaria" secondo la disciplina progressivamente vigente a decorrere
dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 2006.
Nel caso che ci occupa la previsione normativa in
oggetto non è applicabile, poichè gli eterogenei materiali rinvenuti (laterizi,
pezzi di mattonelle e di asfalto), dei quali era in corso un'attività di
macinatura non costituivano il risultato di una operazione di recupero giunta
al suo completamento, come richiesto dal comma 12, originario art. 181.
Il D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 ha modificato
l'art. 181 (il cui testo è stato sostituito, da ultimo, dal D.Lgs. 3 dicembre
2010, n. 205, art. 7) e nell'art. 181-bis aveva fissato requisiti e condizioni
che dovevano sussistere perchè un materiale potesse essere considerato non un
rifiuto ma una materia prima secondaria.
Alla stregua di quella normativa:
- doveva trattarsi di materie e sostanze prodotte
da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti;
- dovevano essere individuate la provenienza, la
tipologia e le caratteristiche dei rifiuti dai quali si potessero produrre;
- dovevano essere individuate le operazioni di
riutilizzo, di riciclo o di recupero che le producevano, con particolare
riferimento alle modalità ed alle condizioni di esercizio delle stesse;
- dovevano essere precisati i criteri di qualità
ambientale, i requisiti merceologici e te altre condizioni necessarie per
l'immissione in commercio, quali norme e standard tecnici richiesti per
l'utilizzo, tenendo conto del possibile rischio di danni all'ambiente e alla
salute derivanti dall'utilizzo o dal trasporto;
- le materie e sostanze dovevano avere un
effettivo valore economico di scambio sul mercato.
La sussistenza delle condizioni indicate doveva
essere contestuale e, in mancanza anche di una sola di esse, il residuo
rimaneva soggetto alle disposizioni sui rifiuti (vedi Cass., Sez. 3,
19.12.2008, n. 47085).
L'art. 181-bis è stato poi abrogato dal D.Lgs. 3
dicembre 2010, n. 205, art. 39, comma 3, che ha rinnovato ed innovato la
disposizione dell'art. 184-quater, restando superata la definizione di materia
prima secondaria a fronte di una chiara fissazione delle condizioni che, ove
sussistenti, fanno cessare, per un materiale sottoposto ad attività di
recupero, la qualità di rifiuto.
Presupposti essenziali sono da individuarsi, in
ogni caso:
- nella sottoposizione del rifiuto ad
un'operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il
riutilizzo;
- nella sussistenza di un mercato e di una
domanda del materiale recuperato (con conseguente attribuzione di un valore
economico) e nella riammissione dello stesso in un ciclo produttivo tipico;
- nella rispondenza del materiale recuperato a
requisiti tecnici e standard specifici;
- nella insussistenza di impatti negativi
sull'ambiente e sulla salute umana.
Anche In relazione al regime dianzi delineato non
risulta dimostrata la intervenuta effettuazione - nella vicenda che ci occupa -
di alcuna attività di recupero (condotta nel rispetto di quanto previsto dai
decreti ministeriali 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 162 e 17 novembre 2005,
n. 269) da parte di un soggetto autorizzato a compiere le relative operazioni.
Cassazione penale, sez. III, 16/05/2012, n. 25206.
11 Ambiente. Servizio fognatura. Tariffa.
I comuni che non sono forniti di impianti di
depurazione dell'acqua non possono chiedere il pagamento della tariffa
richiesta per quel tipo di servizio; ne vale obiettare che la corrispettività
fra la suddetta quota e il servizio di depurazione sussisterebbe comunque,
perché le somme pagate dagli utenti in mancanza del servizio sarebbero
destinate, attraverso un apposito fondo vincolato, all'attuazione del Piano di
ambito, comprendente anche la realizzazione dei depuratori, atteso che non può
dirsi certo il Piano di ambito assicuri che il depuratore venga costruito
proprio nel Comune dove risiede l'utente. Cassazione civile, sez. III,
12/04/2011, n. 8318.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 335
del 2008, ha dichiarato illegittimo la L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma
1, nel testo modificato dalla L. 31 luglio 2002, n. 179, art. 28 nella parte in
cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione e’
dovuta dagli utenti "anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di
impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi".
A tal fine, ha rilevato che l’interpretazione
della L. n. 36 del 1994, condotta alla stregua dei comuni criteri ermeneutici,
porta a ritenere che la tariffa del servizio idrico integrato si configuri, in
tutte le sue componenti, come corrispettivo di una prestazione commerciale
complessa, il quale, ancorché determinato nel suo ammontare in base alla legge,
trova fonte, non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio
dell’utente, bensì nel contratto di utenza.
E la connessione di tali componenti e’
evidenziata, in particolare, dal fatto che, a fronte del pagamento della
tariffar l’utente riceve un complesso di prestazioni consistenti, sia nella
somministrazione della risorsa idrica, sia nella fornitura dei servizi di
fognatura e depurazione.
Ne consegue che la quota di tariffa riferita al
servizio di depurazione, in quanto componente della complessiva tariffa del
servizio idrico integrato, ne ripete necessariamente la natura di corrispettivo
contrattuale, il cui ammontare e’ inserito automaticamente nel contratto (L. n.
36 del 1994, art. 13).
Solo per completezza vale rammentare che, con la
stessa sentenza, la Corte costituzionale ha rilevato che il censurato L. n. 36
del 1994, art. 14, comma 1, e’ stato, con decorrenza dal 29 aprile 2006, abrogato
dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 175, comma 1, lett. u), (Norme in
materia ambientale), e sostituito dall’art. 155, comma 1, primo periodo, dello
stesso decreto legislativo, il quale prevede che "Le quote di tariffa
riferite ai servizi di pubblica fognatura e di depurazione sono dovute dagli
utenti anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano
temporaneamente inattivi. Il gestore e’ tenuto a versare i relativi proventi,
risultanti dalla formulazione tariffaria definita ai sensi dell’art. 154, a un
fondo vincolato intestato all’Autorita’ d’ambito, che lo mette a disposizione
del gestore per l’attuazione degli interventi relativi alle reti di fognatura
ed agli impianti di depurazione previsti dal piano d’ambito".
Ed ha ritenuto che l’analogia tra quest’ultima
disposizione e quelle dichiarate incostituzionali rende evidente che le
considerazioni svolte, in ordine alla irragionevolezza di queste ultime,
valgono anche per la prima.
Concludendo, per la declaratoria di incostituzionalita’
nei termini che seguono: "Dichiara l’illegittimita’ costituzionale della
L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma 1, (Disposizioni in materia di risorse
idriche), sia nel testo originario, sia nel testo modificato dalla L. 31 luglio
2002, n. 179, art. 28 (Disposizioni in materia ambientale), nella parte in cui
prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione e’ dovuta
dagli utenti "anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di
impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente
inattivi";
dichiara, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87,
art. 27 l’illegittimita’ costituzionale del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art.
155, comma 1, primo periodo, (Norme in materia ambientale), nella parte in cui
prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione e’ dovuta
dagli utenti " anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o
questi siano temporaneamente inattivi.
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