2.
Ambiente Rifiuti - Trasporto di rifiuti senza formulario
La modifica normativa apportata dalla l. 3 dicembre 2010 n.
205 all'art. 258 d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 ha determinato il venir meno della
punibilità della condotta di trasporto di rifiuti senza formulario o con
formulario con dati incompleti o inesatti non più sanzionata penalmente in
quanto non riconducibile né alle previsioni del nuovo testo dell'art. 258 né
alla fattispecie introdotta con l'art. 260 bis, che opera un riferimento alla
scheda Sistri e non ai precedenti formulari con la conseguenza che, in
applicazione dei principi fissati dall'art. 2 c.p. le condotte poste in essere
devono essere ritenute non più riconducibili all'ipotesi di reato contemplate
dalla disciplina previgente.
Si osserva a tale proposito che successivamente alla
pronuncia della Corte di Appello la L. 3 dicembre 2010, n. 205 con l'art. 35 ha
modificato il testo del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 258, comma 4, e
introdotto, con nel citato D.Lgs. n. 152 dei 2006, art. 36 e art. 260-bis.
L'art. 258 citato, al comma 4 sanzionava le condotte di trasporto di rifiuti in
assenza di formulario e con formulario incompleto o recante dati inesatti, e
costituiva disposizione che si poneva in regime di continuità normativa con il
D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 52, comma 3. La modifica normativa
apportata dalla L. n. 205 del 2010 all'art. 258, citato, è già stata oggetto di
esame da parte di questa Sezione in relazione al venir meno della punibilità
della condotta di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con
dati incompleti o inesatti; con la sentenza n. 29973 del 21/6/2011, Rigotti (rv
251019) la Corte ha ritenuto che la condotta sopra descritta non sia più
sanzionata penalmente in quanto non riconducibile nè alle previsioni del nuovo
testo dell'art. 258 nè alla fattispecie introdotta con l'art. 260-bis, che
opera un riferimento alla scheda Sistri e non ai precedenti formulari. Le
conclusioni e l'ampia motivazione della decisione citata sono integralmente
condivise da questo Collegio, con la conseguenza che, in applicazione dei
principi fissati dall'art. 2 cod. pen., le condotte contestate ai sigg. B. e D.
devono essere ritenute non più riconducibili all'ipotesi di reato ritenute
sussistenti dai giudici di merito in forza della disciplina in allora vigente.
La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata nei
confronti dei due ricorrenti senza rinvio per essere i fatti non più previsti
come reato. Cassazione penale, sez. III, 22/02/2012, n. 15732.
3.
Ambiente. Bonifica. Mancata effettuazione della comunicazione di contaminazione.
Ai fini della integrazione del reato previsto dall'art. 260
del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 non sono necessari un danno ambientale né la
minaccia grave di esso, atteso che la previsione di ripristino ambientale
contenuta nel comma quarto del citato articolo si riferisce alla sola
eventualità in cui il pregiudizio o il pericolo si siano effettivamente
verificati e, pertanto, non è idonea a mutare la natura della fattispecie da
reato di pericolo presunto a reato di danno. Cassazione penale, sez. III,
20/12/2012, n. 19018.
Elementi costitutivi di detto reato sono: a) la finalità di
conseguire un ingiusto profitto; b) la pluralità delle operazioni e
l'allestimento di mezzi e attività continuative e organizzate; c) la cessione,
la ricezione, il trasporto, l'esportazione, l'importazione, o comunque la
gestione di rifiuti; d) l'abusività di tali attività; e) l'ingente quantitativo
di tali rifiuti. La sussistenza di detti elementi costituisce il discrimine fra
la fattispecie di cui all'art. 260, e quella di cui al precedente art. 256,
comma 1, la quale ultima non richiede nè il dolo specifico di profitto, nè la
predisposizione di mezzi o la continuità della condotta, nè l'ingente
quantitativo di rifiuti.
Non rientrano invece tra i presupposti del reato nè il danno
ambientale, nè la minaccia grave di danno ambientale, perchè la previsione di
ripristino ambientale contenuta nell'art. 260, comma 4, richiamato - secondo
cui il giudice, con la sentenza di condanna o di patteggiamento "ordina il
ripristino dello stato dell'ambiente e può subordinare la concessione della
sospensione condizionale della pena all'eliminazione del danno o del pericolo
per l'ambiente" si riferisce alla sola eventualità in cui il danno o il
pericolo si siano effettivamente verificati e non muta, perciò, la natura del
reato da reato di pericolo presunto a reato di danno (argomento ex Cass. pen.,
sezione 3, 16 dicembre 2005, n. 4503, Rv. 233294). Non assume, perciò, alcuno
specifico rilievo, ai fini della sussistenza del reato, il carattere pericoloso
o non pericoloso dei rifiuti gestiti.
Quanto, poi, al requisito dell'abusività dell'attività, esso
deve ritenersi integrato sia qualora non vi sia autorizzazione (sez. 3, 13
luglio 2004, n. 30373) sia quando vi sia una totale e palese difformità da
quanto autorizzato (sez. 3, 6 ottobre 2005, n. 40828).
Quanto, infine, all'ingente quantitativo di rifiuti gestiti,
devono essere ritenute applicabili le normali regole sulla formazione e la
valutazione della prova; di talchè la quantità di rifiuti può essere desunta,
oltre che da misurazioni direttamente effettuate, anche da elementi indiziaria
quali i risultati di intercettazioni telefoniche, l'entità e le modalità di
organizzazione dell'attività di gestione, il numero e le tipologie dei mezzi
utilizzati, il numero dei soggetti che partecipano alla gestione stessa.
Ribadite queste premesse interpretative - peraltro
facilmente desumibili dall'analisi del dato normativo e della giurisprudenza di
questa Corte - deve rilevarsi che i motivi proposti dai ricorrenti risultano,
oltre che manifestamente infondati in punto di diritto, anche inammissibili
nella parte in cui si riferiscono alla motivazione della sentenza impugnata.
Con essi, infatti, ci si limita a prospettare una valutazione alternativa del
quadro probatorio, senza formulare sostanziali critiche all'impianto logico-
deduttivo posto a fondamento della decisione.
La motivazione oggetto di critica - come, del resto, quella
della sentenza di primo grado - risulta comunque adeguatamente e coerentemente
motivata su tutti tali profili. E, in particolare: a) la finalità di profitto
risulta ampiamente dimostrata sulla base della documentata falsità dei
formulari di accompagnamento dei rifiuti, che denota l'intento di lucrare sia
sul compenso versato dal soggetto conferente, sia attraverso la separazione e
la rivendita di parte dei rifiuti, sia sul risparmio realizzato nel pagamento
effettuato allo smaltitore finale; b) la pluralità e continuatività delle
operazioni e l'organizzazione di mezzi emergono ampiamente dai risultati delle
indagini svolte e, in particolare, dai filmati realizzati e dalle
intercettazioni telefoniche; c) la condotta tenuta si è concretizzata nella
gestione di rifiuti, oltre che attraverso il trasporto degli stessi, anche
attraverso la cernita e la separazione, per la destinazione a rivendita, di
alcune tipologie di rifiuti trasportati; d) l'abusività di tali attività emerge
dal fatto che le stesse non erano autorizzate, tanto da rendere necessaria la
falsificazione della documentazione che attestava la quantità e la qualità dei
rifiuti trasportati e conferiti; e) dai filmati e dalle intercettazioni telefoniche
- sulla cui valenza probatoria fra poco si dirà - oltre che dall'ampiezza
dell'organizzazione, dal numero dei mezzi e dei soggetti coinvolti, dalle
complesse modalità attraverso le quali gli illeciti si realizzavano, emerge il
carattere ingente dei quantitativi gestiti.
4.
Ambiente. Bonifica. Mancata effettuazione della comunicazione di
contaminazione.
La fattispecie di reato prevista dall'art. 257 comma 1 d.lg.
n. 152 del 2006, non è configurabile nei confronti del proprietario del sito
contaminato che però non abbia cagionato l'inquinamento.
Nella specie, era imputato il proprietario di un terreno che
aveva omesso di effettuare la comunicazione agli uffici territorialmente
competenti dell'accertamento di inquinamento storico dell'area di sua proprietà
provocato da sostanze pericolose, nella specie idrocarburi con concentrazioni
comunque superiori a 1000 mg/kg.
Cassazione penale, sez. III, 16/03/2011, n. 18503.
Recita il D.Lgs. n. 152 del 2006, l'art. 257 (bonifica dei
siti) comma 1: Chiunque cagiona l'inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle
acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle
concentrazioni soglia di rischio è punito con la pena dell'arresto da sei mesi
a un anno o con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, se non
provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità
competente nell'ambito del procedimento di cui agli art. 242 e segg.. In caso
di mancata effettuazione della comunicazione di cui all'art. 242, il
trasgressore è punito con la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o con
l'ammenda da mille euro a ventiseimila Euro.
L'art. 242 (procedure operative ed amministrative),
richiamato dall'art. 257, al comma l, stabilisce a sua volta che: Al
verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il
sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore
le misure necessarie di prevenzione e ne da immediata comunicazione ai sensi e
con le modalità di cui all'art. 304, comma 2. La medesima procedura si applica
all'atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora
comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione.
L'esame delle due disposizioni consente immediatamente di
percepire che l'art. 257, comma 1 sanziona penalmente due ipotesi distinte:
l'omessa bonifica del sito inquinato e la mancata
comunicazione dell'evento inquinante alle autorità competenti secondo le
modalità indicate dall'art. 242.
In entrambi i casi il destinatario del precetto è tuttavia
lo stesso e, cioè, colui il quale cagiona l'inquinamento.
Ad avvalorare tale conclusione sta il rilievo che l'art.
257, comma 1 non menziona altri soggetti e ciò benchè l'art. 242 preveda che la
procedura di comunicazione debba trovare applicazione anche all'atto di
individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi
di aggravamento della situazione di contaminazione.
L'autonomia della posizione di colui il quale cagiona
l'inquinamento rispetto a quella di colui il quale accerti la sussistenza di
contaminazioni sul suolo è rimarcata dall'art. 245 che ha per oggetto gli
obblighi di intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili
della potenziale contaminazione. Prevede infatti tale ultima disposizione:
Le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono
essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili.
Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale
contaminazione di cui all'art. 242, il proprietario o il gestore dell'area che
rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento delle
concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla
regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le
misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'art. 242.
Da quanto precede emerge che sotto il profilo formale
l'obbligo di comunicazione per gli "interessati non responsabili"
risiede in realtà nell'art. 245 e non già nell'art. 242 richiamato unicamente
dall'art. 245 stesso per la disciplina degli aspetti procedimentali.
Per cui se il legislatore avesse voluto fare riferimento
nell'art. 257 anche a coloro che non hanno cagionato l'inquinamento, come
correttamente rilevato dal ricorrente, non solo avrebbe dovuto menzionare anche
questi ultimi quali soggetti attivi del reato, ma necessariamente avrebbe
dovuto fare riferimento all'art. 245 (e non art. 242) per individuare l'obbligo
di comunicazione gravante su questi ultimi.
La comunicazione che il responsabile dell'inquinamento è
obbligato ad effettuare alle autorità in base all'art. 242 d.lg. n. 152 del
2006 è dovuta a prescindere dal superamento delle soglie di contaminazione e la
sua omissione è sanzionata dall'art. 257 medesimo decreto.
Nella specie, a seguito della rottura di una cisterna di
gasolio, fuoriusciva del carburante che si era riversato in un corso d'acqua
imbrattandone l'alveo ed inquinandone le acque. Cassazione penale, sez. III,
12/01/2011, n. 16702
5.
Ambiente. Bonifica Siti. Soglia di rischio.
6.
Per superamento delle concentrazioni soglia di rischio, cui
l'art. 257 del d.lg. 3 aprile 2006, n. 152 subordina la punibilità delle
condotte in esso previste, si intende il travvalicamento di livelli di pericolo
ben superiori ai previgenti parametri di concentrazione soglia di
contaminazione. Cassazione penale, sez. III, 17/01/2012, n. 17817.
La nuova disposizione di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n.
152, art. 257, in materia di bonifica dei siti, è meno grave della previgente
disposizione di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 51-bis, atteso che
viene ridotta l'area dell'illecito ed attenuato il trattamento sanzionatorio.
Infatti mentre precedentemente l'evento poteva consistere nell'inquinamento del
sito o nel pericolo concreto ed attuale di inquinamento, il citato art. 257
configura il solo evento di danno dell'inquinamento; inoltre per aversi
inquinamento è ora necessario il superamento della concentrazione soglia di
rischio (CSR), che è un livello di rischio superiore ai livelli delle
concentrazioni soglia di contaminazione (CSC); infine la sanzione penale è ora
prevista con pena pecuniaria o detentiva alternativa, diversamente dalla
precedente disposizione che prevedeva la pena congiunta" (così Cass., Sez.
3: n. 9794/2007 e, successivamente, 3.3.2009, n. 9492 e 9.6.2010, n. 22006).
Alla stregua di tali principi, che il Collegio condivide e
ribadisce, si deve osservare che, nella fattispecie in esame, la Corte di
merito non ha accertato, ai fini dell'applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006,
art. 257 (quale norma più favorevole rispetto al D.Lgs. n. 22 del 1997, art.
51-bis), il superamento delle concentrazioni soglie di rischio (CSR) che
costituisce parametro di natura diversa dal cd.
limite di accettabilità di cui al D.M. 25 ottobre 1999, n.
471.
Essa si è limitata a rilevare che - essendo stata verificata
la presenza del 75% di idrocarburi nel campione d'acqua prelevato dal pozzo
sito all'interno della proprietà delle parti civili e fa presenza di
idrocarburi "in notevole quantità" nel terreno vicino - "risulta
con tutta evidenza provato l'evento di danno inteso come superamento delle
concentrazioni soglia di rischio"; ha fatto quindi un accenno ai campioni
prelevati dallo strato sabbioso del terreno, che erano risultati contaminati in
modo rilevante da idrocarburi per una quantità pari, rispettivamente, a 5118 e
a 3425 a fronte dei limiti di 750 per le zone industriali e di 50 per te zone
residenziali.
In tal modo, però, non risulta effettuata la verifica
dell'evento inquinamento secondo quanto normativamente richiesto come elemento
essenziale della nuova figura criminosa, dovendo ricordarsi, al riguardo, che
l'analisi di rischio sanitario e ambientate sitospecifica è lo strumento che il
D.Lgs. n. 152 del 2006 ha introdotto al fine dell'accertamento del superamento
dei livelli di contaminazione CSR ed esso ha sostituito la previgente
disciplina basata esclusivamente sul metodo tabellare.
Va ancora osservato (con constatazione che già da sola può
assumere rilevanza essenziale) che, mentre per il procedimento richiamato dal
D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51-bis il reato era configurabile per la violazione
di uno qualsiasi dei numerosi obblighi gravanti sul privato secondo le
previsioni del correlato art. 17, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152
del 2006, art. 257 fa consumazione del reato non può prescindere dall'adozione
del progetto di bonifica ex art. 242, progetto che, nella specie, non risulta
mai approvato.
La sentenza impugnata, conseguentemente, va annullata senza
rinvio, perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Al fine di delimitare gli ambiti di
responsabilità, il valore della controfirma posta dal trasportatore, in materia
di reati ambientali, equivale a assunzione di responsabilità relativa al mero
trasporto di cose. Né sembra possibile imporre al trasportatore di accertarsi
della natura reale del rifiuto, sottoponendolo ad esami analitici prima di ogni
carico.
L'art. 193 t.u. ambiente, prescrive che durante
il trasporto effettuato da enti o imprese, i rifiuti sono accompagnati da un
formulario di identificazione, onerando il conferitore della redazione del
formulario di identificazione ed esonera pertanto, così come modificato dal
D.l.vo 205/2010, da responsabilità gli autisti in relazione ai dati contenuti
nel FIR a meno che non vi siano difformità rilevabili con la diligenza
richiesta dalla natura dell'incarico. Il trasportatore, infatti si limita a
controfirmare un modello predisposto dal detentore, qualificandosi la propria
firma in un'attestazione di ricevimento del carico.
L'art. 193 TU ambiente prescrive che durante il
trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati da un
formulario di identificazione dal quale devono risultare almeno i seguenti
dati:
a) nome ed indirizzo del produttore e del
detentore;
b) origine, tipologia e quantità del rifiuto;
c) impianto di destinazione;
d) data e percorso dell'istradamento;
e) nome ed indirizzo del destinatario.
Il formulario di identificazione deve essere
redatto in quattro esemplari, compilato, datato e firmato dal produttore o dal
detentore dei rifiuti e controfirmato dal trasportatore. Una copia del
formulario deve rimanere presso il produttore o il detentore e le altre tre,
controfirmate e datate in arrivo dal destinatario, sono acquisite una dal
destinatario e due dal trasportatore, che provvede a trasmetterne una al
detentore. Le copie del formulario devono essere conservate per cinque anni.
La disciplina vigente, quindi, onera il
conferitore (e non il singolo autista - trasportatore) della redazione del
formulario di identificazione .
Il trasportatore si limita, infatti, a
contrifirmare un modello predisposto, appunto, dal detentore, che attribuisce
agli oggetti del conferimento anche il codice identificativo del rifiuto (e
quindi la sua natura pericolosa o non pericolosa).
La controfirma del trasportatore deve, allora,
essere interpretata alla stregua di un'attestazione di ricevimento del carico.
Colui che svolge il ruolo di autista trasportatore all'interno di una ditta che
gestisca illecitamente rifiuti, in assenza di apposita autorizzazione, e si
limiti ad eseguire disposizioni del datore di lavoro, effettuando unicamente i
singoli trasporti fino all'azienda, non risponde del reato di cui all'art. 260
t.u.ambiente, in quanto non risulta configurabile il dolo specifico tipico che,
è quello di trarre profitto dalla gestione illecita di rifiuti. Ufficio
Indagini preliminari Catanzaro, 13/06/2011.
9.
La pratica della "fertirrigazione", la cui
disciplina si pone in deroga alla normativa sui rifiuti, presuppone l'effettiva
utilizzazione agronomica delle sostanze e la compatibilità di condizioni e
modalità di utilizzazione delle stesse con tale pratica. Cassazione penale,
sez. III, 22/01/2013, n. 15043.
Risulta accertato, nel caso in esame, che il fatto
addebitato all'indagato consiste nell'avere abbandonato, quale titolare di
azienda agricola, i liquami prodotti dall'allevamento di suini che, dalla vasca
di stoccaggio in c.a., mediante condotte, venivano successivamente abbandonati
attraverso condotte sul nudo terreno nell'area circostante, e poi si
riversavano tramite ruscellamento nel corso d'acqua sottostante alla vasca.
La modalità di trattamento del liquame non rientra dunque
nel concetto di scarico, perchè - come chiaramente dispone il D.Lgs. n. 152 del
2006, art. 74 ff) per scarico si intende "qualsiasi immissione effettuata
esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza
soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo
ricettore, acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria,
indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo
trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all'art.
114".
Di conseguenza, nel caso di specie, mancando, come si è
visto, un sistema stabile di collegamento senza soluzione di continuità tra
ciclo di produzione del refluo e corpo ricettore, non si è in presenza di uno
scarico, e quindi non trova applicazione la disciplina dello scarico senza
autorizzazione di reflui provenienti da attività d'allevamento del bestiame di
cui al citato D.Lgs., art. 133 (che prevede solo una sanzione amministrativa),
ma quella sui rifiuti atteso che in tale accezione l'all. D alla Parte Quarta
del D.Lgs. n. 152 del 2006, (così come, in precedenza, l'all. A al previgente
D.Lgs. n. 22 del 1997) include, con il codice CER 02 01 06, "reo animali,
urine e letame (comprese le lettiere usate), effluenti, raccolti separatamente
e trattati fuori sito".
Il ricorrente afferma che i reflui vengono utilizzati per
fertirrigazione legittimamente praticata, ma non vi è prova di una tale attività.
Come affermato di recente da questa Corte (cfr. Sez. 3,
Sentenza n. 5039 del 17/01/2012 Ud. dep. 09/02/2012 Rv. 251973), presupposto
imprescindibile per l'effettuazione della pratica della fertirrigazione è
l'effettiva utilizzazione agronomica delle sostanze, la quale implica che
l'attività sia di una qualche utilità per l'attività agronomica e lo stato, le
condizioni e le modalità di utilizzazione delle sostanze compatibili con tale
pratica. In altre parole, deve trattarsi di un'attività la cui finalità sia
effettivamente il recupero dette sostanze nutritive ed ammendanti contenute
negli effluenti e non può risolversi nel mero smaltimento delle deiezioni
animali.
Da ciò consegue la necessità che, in primo luogo, vi sia
l'esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo
spandimento, la quantità e qualità degli effluenti sia adeguata al tipo di
coltivazione, i tempi e le modalità di distribuzione siano compatibili ai
fabbisogni delle colture e, in secondo luogo, che siano assenti dati fattuali
sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione quali, ad
esempio, lo spandimento di liquami lasciati scorrere per caduta, effettuato a
fine ciclo vegetativo, oppure senza tener conto delle capacità di assorbimento
del terreno con conseguente ristagno.
Alla luce delle considerazioni dianzi esposte va pertanto
riaffermato il principio secondo il quale la pratica della
"fertirrigazione", la cui disciplina si pone in deroga alla normativa
sui rifiuti, rispetto alla quale è autonoma ed indipendente e non richiede che
gli effluenti provengano da attività agricola e siano riutilizzati nella stessa
attività agricola, presuppone l'effettiva utilizzazione agronomica delle
sostanze, la quale implica che essa sia di una qualche utilità per l'attività
agronomica e lo stato, le condizioni e le modalità di utilizzazione delle
sostanze compatibili con tale pratica, con la conseguenza che, in difetto, essa
resta sottoposta alla disciplina generale sui rifiuti.
In considerazione dei dati fattuali esaminati dal
Tribunale e delle disposizioni in precedenza richiamate, l'ordinanza impugnata
appare corretta in ordine all'accertamento del fumus del reato
contravvenzionale di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256 (attività di
gestione di rifiuti non autorizzata), poiché risulta del tutto mancante la
prova dell'applicabilità, nella fattispecie, tanto della deroga prevista per le
materie fecali dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, quanto di quella prevista
dalla disciplina della pratica della fertirrigazione.
Integra il reato previsto dall'art. 256, comma quarto,
del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 l'inosservanza delle prescrizioni previste per
l'esercizio della attività di recupero dei rifiuti, che traggano origine da
specifiche disposizioni normative o che siano direttamente imposte dalla P.A.
nell'esercizio del suo potere discrezionale. Cassazione penale, sez. III,
09/04/2013, n. 19955.
L'attività di recupero dei rifiuti è definita dal D.Lgs.
n. 152 del 2006, art. 183, lett. t) come "qualsiasi operazione il cui
principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile,
sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per
assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione,
all'interno dell'impianto o nell'economia in generale (...)".
La medesima disposizione precisa, nell'ultimo periodo,
che l'Allegato C alla parte 4^ del D.Lgs. 152 del 2006 riporta un elenco non
esaustivo di operazioni di recupero, tra le quali possono individuarsi, con
riferimento agli pneumatici fuori uso e per quello che qui interessa, le
seguenti operazioni: R1 "Utilizzazione principale come combustibile o come
altro mezzo per produrre energia"; R3 "Riciclo/recupero delle
sostanze organiche non utilizzate come solventi (comprese le operazioni di
compostaggio e altre trasformazioni biologiche)"; R13 "Messa in
riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate nei punti da
R1 a R12 .
Il D.M. 5 febbraio 1998, che riguarda la
"individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure
semplificate di recupero ai sensi del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, artt. 31 e
33" è espressamente richiamato, con riferimento alle attività di recupero,
dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 214, comma 4, il quale ne prevede
l'applicabilità sino all'adozione dei decreti previsti dal comma 2 del medesimo
articolo.
Il decreto, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152
del 2006, ha subito ulteriori modifiche - rispetto a quelle già apportate nel
2003 e nel 2004 - a seguito di quanto rilevato dalla Corte di Giustizia con la
sentenza del 7 aprile 2004, ad opera del D.M. 5 aprile 2006, n. 186 e dal
D.Lgs. n. 4 del 2008 (art. 2, comma 47 relativamente ai rifiuti di carta,
cartone, e prodotti di carta).
Va peraltro ricordato che, con specifico riferimento agli
pneumatici, la L. 31 luglio 2002, n. 179, art. 23, comma 2 dando riscontro alla
Decisione 2000/532/CE del 3 maggio 2000, che aveva riformulato il codice CER 16
01 03, stabiliva, tra l'altro, che il Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio era autorizzato ad apportare le conseguenti modifiche ed
integrazioni al D.M. Ambiente 5 febbraio 1998, come in effetti poi avveniva ad
opera del D.M. 9 gennaio 2003, recante "Esclusione dei pneumatici
ricostruibili dall'elenco di rifiuti non pericolosi" ove, considerata
"la necessità di escludere i pneumatici ricostruibili dall'elenco dei
rifiuti non pericolosi individuato dall'allegato 1 al citato D.M. 5 febbraio
1998" il quale sopprimeva la voce 10, punto 3, del suballegato 1
all'allegato 1 del D.M. 5 febbraio 1998 che tale tipologia di pneumatici
contemplava, lasciando invece inalterata la voce 10, punto 2 concernente gli
pneumatici non ricostruibili, le camere d'aria non riparabili e gli altri
scarti di gomma.
Il D.M. 5 febbraio 1998 attualmente considera,
nell'Allegato 1, Suballegato 1, al punto 10.2, gli pneumatici non
ricostruibili, camere d'aria non riparabili e altri scarti di gomma con codice
CER 16.01.03 provenienti dall'industria della ricostruzione pneumatici, da
attività di sostituzione e riparazione pneumatici e attività di servizio, da
attività di autodemolizione autorizzata, autoriparazione e industria automobilistica.
Le attività considerate al punto 10.2.3 sono la messa in
riserva di rifiuti di gomma (R13) con lavaggio, triturazione e/o
vulcanizzazione per sottoporli alle seguenti operazioni di recupero: a)
recupero nell'industria della gomma per mescole compatibili (R3); b) recupero
nella produzione bitumi (R3); c) realizzazione di parabordi previo lavaggio
chimico fisico se contaminato, eventuale macinazione, compattazione e
devulcanizzazione (R3).
Il punto 10.2.2. individua così le caratteristiche del rifiuto:
"pneumatici usurati e camere d'aria con eventuale presenza di inquinanti
superficiali (IPA minore 10 ppm); scarti di gomma di varie dimensioni e
forme", mentre le caratteristiche delle materie prime e/o dei prodotti
ottenuti sono individuate dal successivo punto 10.2.4: a) manufatti in gomma
nelle forme usualmente commercializzate; b) e c) bitumi e parabordi nelle forme
usualmente commercializzate.
I rifiuti classificabili con codice CER 16.01.03 sono
contemplati anche nel medesimo sub-allegato, al punto 14, tra i rifiuti
speciali non pericolosi per la produzione di CDR (combustibile da rifiuti,
categoria peraltro non più compresa nel D.Lgs. n. 152 del 2006 dopo le
modifiche apportatevi dal D.Lgs. 205 del 2010) e nel punto 17 tra i rifiuti
recuperabili con processi di pirolisi o gassificazione.
Le quantità massime di rifiuti recuperabili sono poi
indicate nell'allegato 4, suballegato 1 del medesimo decreto.
Il D.M. del 1998 è riferibile esclusivamente alle
attività di recupero soggette a procedura semplificata, come è indicato nel
titolo e come si rileva dall'esame del preambolo, dall'articolato e dal
richiamo ad esso effettuato dal già menzionato D.Lgs. n. 152 del 2006, art.
214.
Tali attività riguardano esclusivamente, come si è visto,
il recupero di materia (riciclaggio) e non anche il recupero di energia.
L'attività di recupero energetico effettuata dal
ricorrente è soggetta, come si è visto, all'autorizzazione unica prevista dal
D.Lgs. n. 153 del 2006, art. 208.
Seppure in termini estremamente generici, va ricordato
che il rilascio del provvedimento autorizzatorio presuppone, come è noto,
l'espletamento di un complesso procedimento amministrativo, ove
l'amministrazione opera un preventivo controllo di compatibilità dell'impianto
con la normativa di settore attraverso un'istruttoria tecnica, all'esito del
quale viene emesso il titolo abilitativo.
L'autorizzazione unica, in particolare, prevede la
convocazione di apposita conferenza di servizi, che rappresenta luogo
procedimentale di complessiva valutazione del progetto presentato, tanto che
l'art. 208, comma 6 assegna al provvedimento conclusivo del procedimento una
funzione sostitutiva di tutti gli atti e provvedimenti ordinariamente di
competenza di altre autorità territoriali, che assumono così il ruolo di
interlocutori procedimentali.
Il provvedimento, di così ampia portata, risulta anche
connotato da evidente discrezionalità, atteso che l'amministrazione può
incidere anche in modo rilevante sull'attività autorizzata attraverso
l'imposizione di prescrizioni che possono integrare o, addirittura, limitare
l'efficacia del provvedimento.
L'art. 208, comma 11 è inequivocabile in tal senso,
disponendo che l'autorizzazione individui, in generale, le condizioni e le
prescrizioni necessarie per garantire l'attuazione dei principi di cui all'art.
178 ed "almeno" alcuni elementi specificamente indicati, quali, tra
gli altri, i tipi ed i quantitativi di rifiuti che possono essere trattati; i
requisiti tecnici con particolare riferimento alla compatibilità del sito, alle
attrezzature utilizzate, ai tipi ed ai quantitativi massimi di rifiuti e alla
modalità di verifica, monitoraggio e controllo della conformità dell'impianto
al progetto approvato per ciascun tipo di operazione autorizzata; le misure
precauzionali e di sicurezza da adottare.
L'uso dell'avverbio "almeno" evidenzia come
l'elencazione sia indicativa e non tassativa, cosicchè l'amministrazione può
apporre ulteriori clausole che delimitino ulteriormente l'attività lecitamente
espletabile.
Alla luce di quanto appena osservato deve, pertanto,
concludersi che, nella fattispecie, la previsione, da parte
dell'amministrazione che ha rilasciato il titolo, di uno specifico requisito
del rifiuto da recuperare (presenza di IPA minore 10 ppm), risulta pienamente
legittimo perchè rientrante nell'ambito dell'ampia discrezionalità riconosciuta
dal legislatore.
Le prescrizioni apposte all'autorizzazione devono
ritenersi vincolanti per il soggetto autorizzato non soltanto quando traggano
origine da specifiche disposizioni normative che l'atto autorizzatorio
semplicemente recepisce, ma anche quando siano apposte direttamente
dall'amministrazione che le rilascia nell'esercizio del suo potere
discrezionale.
L'attribuzione di tale potere, inoltre, trova una giustificazione
evidente, come pure osservato in dottrina, nella necessità di adeguare
l'esercizio dell'attività autorizzata a specifiche esigenze relative al singolo
insediamento attraverso l'imposizione di prescrizioni limitative o modali.
E' pertanto evidente che, per quanto detto in precedenza,
il destinatario del provvedimento non potrà certo ignorare le prescrizioni
imposte con l'atto abilitativo e che ne delineano l'ambito di efficacia ed
esercitare comunque l'attività autorizzata, pur potendo far ricorso agli
ordinari strumenti di tutela qualora intenda porre in discussione la
legittimità del titolo abilitante.
Il reato previsto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256,
comma 4, come si è già avuto modo di rilevare, è reato proprio, in quanto
l'agente è necessariamente il soggetto destinatario del titolo abilitativo,
permanente (Sez. 3, n. 16890, 5 maggio 2005) e formale, poichè richiede, per la
sua configurabilità, la mera inosservanza delle prescrizioni contenute o
richiamate nelle autorizzazioni, ovvero la carenza dei requisiti e delle
condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni avendo come finalità
quella di assicurare il controllo amministrativo da parte della pubblica
amministrazione (Sez. 3, n. 6256 del 21 febbraio 2011).
La responsabilità del gestore della discarica per
l'accettazione e la ricezione di rifiuti in violazione delle prescrizioni
autorizzative e dei requisiti d'ammissibilità previsti dal D.M. 3 agosto 2005
(recante "Definizione dei criteri d'ammissibilità dei rifiuti in
discarica"), emanato in attuazione D.Lgs. 13 gennaio 2003, n. 36, va
valutata con riferimento alle regole vigenti al momento del
conferimento.Cassazione penale, sez. III, 02/05/2013, n. 21146.
Il D.M. 3 agosto
2005, recante la definizione dei criteri di ammissibilità dei rifiuti in
discarica, è stato emanato in attuazione di quanto disposto dal D.Lgs. n. 36
del 2003, art. 7, comma 5, (attuazione della direttiva 1999/31/Ce relativa alle
discariche di rifiuti) che demanda ad un apposito decreto la definizione dei
criteri di ammissibilità in discarica dei rifiuti ed era vigente all'epoca dei
fatti, essendo stato abrogato solo con l'entrata in vigore del D.M. 27
settembre 2010, secondo quanto stabilito dall'art. 11 del Decreto medesimo.
Il testo del provvedimento è inequivoco e contempla i
criteri e le procedure di ammissibilità dei rifiuti nelle discariche,
prevedendo la caratterizzazione di base del rifiuto da eseguire prima del
conferimento in discarica, ovvero dopo l'ultimo trattamento effettuato e la
verifica del rifiuto al fine di stabilire il possesso delle caratteristiche
della relativa categoria ed il rispetto dei criteri di ammissibilità previsti.
Con specifico riferimento alle discariche di rifiuti
inerti, quale è quella gestita dal ricorrente, il D.M., art. 5 individua due
diverse tipologie di rifiuti. La prima è costituita dai rifiuti elencati nella
tabella 1, che non richiede alcun accertamento analitico, trattandosi di
rifiuti considerati già conformi ai criteri specificati nella definizione di
rifiuti inerti di cui al D.Lgs. 13 gennaio 2003, n. 36, art. 2, comma 1, lett.
c) ed ai criteri di ammissibilità stabiliti dal decreto ministeriale. Si deve
tuttavia trattare di una singola tipologia di rifiuti, proveniente da un unico
processo produttivo, anche se sono ammesse, insieme, diverse tipologie di
rifiuti elencati nella tabella 1, purchè provenienti dallo stesso processo
produttivo, La seconda categoria contempla, invece, i rifiuti inerti che, a
seguito della caratterizzazione di base di cui all'art. 2, sottoposti a test di
cessione di cui all'allegato 3 al decreto, presentano un eluato conforme alle
concentrazioni fissate nella tabella 2 o che non contengono contaminanti
organici in concentrazioni superiori a quelle indicate nella tabella 3 del
Decreto.
Risulta pertanto evidente, come pure ritenuto dai giudici
del merito, che le disposizioni che individuano i criteri di ammissibilità dei
rifiuti In discarica hanno, come finalità esclusiva, quella di verificare la
conferibllità in discarica del singolo rifiuto previo accertamento delle
caratteristiche e della loro rispondenza ai requisiti normativamente fissati,
il che non consente di estenderne l'ambito di applicazione In momenti
successivi a quello del conferimento.
Del resto, anche il D.Lgs. n. 36 del 2003, art. 7, comma
5 che prevede l'emanazione del decreto ministeriale, fa espresso ed esclusivo
riferimento ai criteri di ammissione in discarica dei rifiuti.
Tali disposizioni, peraltro, non prevedono alcuna
sanzione di nullità o inutilizzabilltà in caso di Inosservanza ed hanno
pertanto carattere ordinatorio.
Deve inoltre ritenersi possibile che la verifica circa
l'ammissione, in una discarica di inerti, di rifiuti che non soddisfano i
criteri normativamente individuati possa essere effettuata, dopo il
conferimento, non soltanto mediante accertamento analitico, ma anche attraverso
l'utilizzazione di ogni elemento di prova valutabile dal giudice.
Nella fattispecie, la Corte territoriale, dopo aver
proceduto all'individuazione dell'ambito di operatività del citato decreto
ministeriale in maniera che il Collegio ritiene giuridicamente corretta per le
ragioni appena esposte, ha puntualmente analizzato l'ulteriore, rilevante,
aspetto della rappresentatività dei campioni prelevati, con accertamento in
fatto ancora una volta assistito da tenuta logica e coerenza strutturale e
fondato sulle risultanze dell'istruzione dibattimentale e sulla verifica delle
metodiche utilizzate, ritenute corrette.
Tale verifica costituisce, peraltro, idonea, ancorchè
implicita, confutazione delle diverse considerazioni sviluppate dal consulente
di parte richiamate nel terzo motivo di ricorso attraverso l'inammissibile
prospettazione di una valutazione alternativa degli elementi già esaminati dai
giudici del merito.
La giurisprudenza di questa Corte abbia già avuto modo di
precisare che sul gestore della discarica grava l'obbligo di verificare la
caratterizzazione dei rifiuti effettuata dai produttori o dai detentori che li
conferiscono al fine di determinare l'ammissibilità dei rifiuti stessi (Sez. 3
n. 37559, 3 ottobre 2008) e che tale obbligo va assolto con tutti i mezzi
idonei, non potendo essere limitato ad una comparazione meramente visiva (Sez.
3 n. 36818, 12 ottobre 2011).
Si tratta, invero, di un obbligo chiaramente individuato
anche dal D.M. 3 agosto 2005 ripetutamente richiamato dal ricorrente, laddove
impone al gestore della discarica non soltanto un sommario esame documentale e
visivo come affermato in ricorso, quanto, piuttosto, un accertamento
sicuramente accurato, come emerge dal tenore complessivo delle disposizioni che
richiamano espressamente i doveri del gestore con riferimento ad attività di
"verifica" ed "ispezione".
In tema di gestione dei rifiuti, ai fini del giudizio in
ordine alla responsabilità del gestore della discarica per l'accettazione e la
ricezione di rifiuti in violazione delle prescrizioni autorizzative e dei
requisiti d'ammissibilità previsti dal D.M. 3 agosto 2005 (recante
"Definizione dei criteri d'ammissibilità dei rifiuti in discarica"),
emanato in attuazione del D.Lgs. 13 gennaio 2003, n. 36, la verifica di
ammissibilità dei rifiuti può essere effettuata, dopo il conferimento, non
soltanto mediante accertamento analitico ma anche attraverso l'utilizzazione di
ogni elemento di prova valutabile dal giudice. Cassazione penale, sez. III,
02/05/2013, n. 21146.
Le responsabilità nella gestione di rifiuti è disciplinata dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art.
188, il quale indica gli oneri incombenti su produttori e detentori dei
rifiuti.
Il terzo comma della richiamata disposizione prevedeva
all'epoca dei fatti (e prevede attualmente) alcune esenzioni di responsabilità,
tra le quali figura quella operante in caso di conferimento dei rifiuti a
soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento, ma a
condizione che il detentore abbia ricevuto il formulario di cui all'art. 193
controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro tre mesi dalla data di
conferimento dei rifiuti al trasportatore ovvero, alla scadenza del predetto
termine, abbia provveduto a dare comunicazione alla provincia della mancata
ricezione del formulario.
A tale proposito questa Corte ha già avuto modo di
chiarire che il detentore dei rifiuti può affidare la raccolta, il trasporto e
lo smaltimento dei rifiuti ad altri soggetti privati affinchè svolgano per suo
conto tali attività, ma in tal caso ha l'obbligo di controllare che gli stessi
siano autorizzati alle attività di raccolta e smaltimento o recupero e, qualora
tale doverosa verifica sia omessa, il detentore risponde a titolo di colpa, per
inosservanza della citata regola di cautela imprenditoriale, dei reati
configurati dall'illecita gestione (Sez. 3^ n. 8018, 1 marzo 2012.
La responsabilità non è evidentemente esclusa dal fatto
che il terzo sia munito di autorizzazione, ma relativa a rifiuti diversi da
quelli oggetto di conferimento, perchè ciò si risolve nella mancanza di
autorizzazione per i rifiuti conferiti; nè si configura come una inammissibile
forma di responsabilità oggettiva, conseguendo viceversa alla negligenza nella
verifica della esistenza di specifica autorizzazione (Sez. 3^ n. 18038, 11
maggio 2007.
Nel caso in esame il Tribunale ha fatto dunque buon uso
dei principi dianzi ricordati, rilevando, sulla base delle emergenze
probatorie, con argomenti in fatto congruamente sviluppati, che gli imputati
erano perfettamente in grado di porre in essere tutte le verifiche e le cautele
che l'ambito professionale entro il quale sono inseriti necessariamente
richiedono e che avrebbero potuto effettuare adoperando una pur minima
diligenza ed, anzi, che nel caso dell' A. la possibile irregolarità del
conferimento che si andava effettuando era stata avvertita anche da una
semplice dipendente addetta al settore contabile dell'azienda, le cui
osservazioni erano state disattese per mera convenienza economica.
Correttamente è stata dunque esclusa dal giudice del
merito l'induzione in errore da parte del soggetto cui i rifiuti venivano conferiti
, non potendo i detentori dei rifiuti, in presenza del preciso onere loro
imposto dalla legge, fare affidamento sulle rassicurazioni verbali del
trasportatore.
Deve in definitiva ribadirsi il principio secondo il
quale colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per il recupero o
lo smaltimento ha il dovere di accertare che gli stessi siano debitamente
autorizzati allo svolgimento di dette attività, con la conseguenza che
l'inosservanza di tale elementare regola di cautela imprenditoriale è idonea a
configurare la responsabilità per il reato di illecita gestione di rifiuti in
concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo
abilitativo.
Colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi
per il recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che gli stessi siano
debitamente autorizzati allo svolgimento di dette attività, con la conseguenza
che l'inosservanza di tale elementare regola di cautela imprenditoriale è
idonea a configurare la responsabilità per il reato di illecita gestione di
rifiuti in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto
titolo abilitativo. E’ stata affermata la responsabilità penale degli
imputati che condannava alla pena
dell'ammenda, in ordine la reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256,
comma 1, lett. a), perchè, nelle loro qualità titolari di imprese, individuali
o collettive, avevano conferito i rifiuti prodotti presso un impianto di
gestione in regime semplificato non abilitato a riceverli. Cassazione penale,
sez. III, 04/06/2013, n. 29727.
I veicoli d'epoca, definiti come i veicoli storici o di
valore per i collezionisti o destinati ai musei, sono esclusi dalla disciplina
dei rifiuti solo se conservati in modo adeguato, pronti all'uso ovvero in pezzi
smontati sì da rivelarsi d'interesse per collezionisti o musei, conseguendone,
in difetto, l'applicazione delle sanzioni penali previste dal d.lg. 3 aprile
2006 n. 152. Cassazione penale, sez. III, 16/03/2011, n. 18504.
Ai sensi del D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 209, art. 3
"Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori
uso", le cui disposizioni continuano ad applicarsi, ai sensi dell'art.
227, anche dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 3 occorre
distinguere tra "veicolo fuori uso" e "veicolo d'epoca".
Il veicolo fuori uso viene definito all'art. 3, lett. b)
come "un veicolo di cui alla lett. a) a fine vita che costituisce un
rifiuto ai sensi del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 6 e successive
modifiche, mentre al successivo art. 3, comma 3 si precisa che "non rientrano
nella definizione di rifiuto ai sensi del comma 1, lett. b), e non sono
soggetti alla relativa disciplina, i veicoli d'epoca, ossia i veicoli storici o
di valore per i collezionisti o destinati ai musei, conservati in modo
adeguato, pronti all'uso ovvero in pezzi smontate.
Non basta dunque per l'esclusione dalla nozione di
rifiuto che il veicolo sia d'epoca, ma occorre ovviamente che siano anche
conservati in modo adeguato, pronti all'uso o in pezzi smontati, onde
appalesarsi appetibili per il mondo dei collezionisti o per i musei. Il che
evidentemente è da escludere nella specie.
Il sistema sanzionatorio per l'abbandono dei rifiuti è
articolato nel seguente modo: per i privati che violano il divieto in esame è
prevista una sanzione amministrativa, in base all'art. 255, comma 1; se,
invece, la violazione viene commessa da titolari di imprese o enti scatta una
sanzione penale, ex art. 256, comma 2, con duplicità di ipotesi a seconda che si
tratti di rifiuti pericolosi o non (art. 256, comma 1, lett. a, o e b).
Nella fattispecie è stato accertato che l'imputato stava
abbandonando rifiuti non pericolosi, senza autorizzazione, e che lo stesso è
titolare di una attività di impresa per la vendita della carne (macelleria), si
rivela indubbia sia la corretta qualificazione del fatto, sia la esatta
indicazione della normativa violata.
Inoltre la fattispecie amministrativa e quella penale
hanno in comune le condotte di abbandono, deposito e immissione di rifiuti e
che la nota prevalente dell'abbandono e del deposito consiste nella
occasionalità, posto che, altrimenti, in presenza delle caratteristiche di
continuità e imprenditorialità, la condotta di ammasso dei rifiuti costituisce
"discarica".
Va, altresì, considerato che l'illecito di cui all'art.
256, comma 2 risulta strutturato come reato proprio e rappresenta il
completamento ideale della fattispecie sanzionata in via amministrativa
dall'art. 255, comma 1, il cui spettro applicativo abbraccia, invece, tutte te
ipotesi in cui le medesime condotte delineate dal citato art. 256, comma 2,
siano poste in essere da un qualunque soggetto privato (ex multis Cass.
8/6/2004, Bono).
E'evidente, quindi, che le peculiari qualifiche
soggettive (art. 256, comma 2) rivestano nell'ambito della fattispecie in esame
il ruolo di elemento specializzante rispetto alla ipotesi di cui al precedente
art. 255, comma 1, che, peraltro, si apre proprio con la clausola di riserva
"fatto salvo quanto disposto dall'art. 256, comma 2".
Di tal che, qualora la condotta tipizzata venga posta in
essere da soggetto qualificato, il giudice dovrà procedere, in virtù del
principio generale di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 9, alla applicazione
della norma penale, avente carattere di specialità rispetto a quella che
prevede l'illecito amministrativo (Cass, 3/7/2002, Bue), infliggendo la
sanzione penale alternativa dell'ammenda o dell'arresto, se trattasi di rifiuti
non pericolosi, o congiunta se pericolosi.L'illecito di cui al comma 2
dell'art. 256 d.lg. n. 152 del 2006 risulta strutturato come reato proprio e
rappresenta il completamento ideale della fattispecie sanzionata in via
amministrativa dall'art. 255 comma 1, il cui spettro applicativo abbraccia,
invece, tutte le ipotesi in cui le medesime condotte delineate dal citato art.
256 comma 2, siano poste in essere da un qualunque soggetto privato. Cassazione penale, sez. III, 22/02/2012, n.
11595.
Il reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
di cui all'art. 256 comma 2 d.lg. n. 152 del 2006 ha natura di reato proprio,
richiedendo, quale elemento costitutivo, la qualità di titolare di impresa o di
responsabile di ente in capo all'autore della violazione, sicché non rientra in
esso, bensì nell'ipotesi dell'illecito amministrativo di cui all'art. 255 comma
1, la condotta del proprietario di un autoveicolo di abbandono dello stesso in
un parcheggio pubblico. Cassazione penale, sez. III, 17/01/2012, n. 5042
Nella fattispecie su di un terreno di proprietà della
società, di cui l'imputato era legale rappresentante, era stato rilevato
l'abbandono incontrollato di rifiuti. L'area veniva sottoposta a sequestro in
sede penale e successivamente veniva intimato dal Comune alla società e per
essa all'imputato di procedere alla rimozione dei rifiuti.
L'imputato, pur avendo ricevuto la notifica
dell'ordinanza sindacale (prodotta in atti), non vi ottemperava in alcun modo.
Alla luce dell'istruttoria svolta, si può ritenere provata
la responsabilità dell'imputato, al di là di ogni ragionevole dubbio.
La difesa ha eccepito solo che l'area era sottoposta a
sequestro penale e dunque non spettava all'imputato di provvedere alla
rimozione dei rifiuti fin tanto che permaneva tale sequestro.
La giurisprudenza tuttavia, difformemente da quanto
sostenuto dalla difesa, ritiene che nel caso in cui l'area sulla quale i
rifiuti si trovano in stato di abbandono sia sottoposta a sequestro
giudiziario, il proprietario (od il possessore) della medesima che sia
destinatario dell'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti debba richiedere
al giudice l'autorizzazione ad accedervi onde provvedere alla rimozione,
diversamente configurandosi la contravvenzione prevista dall'art. 14, D.Lgs. 5
febbraio 1997, n. 22, oggi sostituito dall'art. 192, comma terzo, D.Lgs. 3
aprile 2006, n. 152; conseguentemente si è escluso che il sequestro costituisca
causa di inesigibilità della condotta normativamente richiesta (così Cass. Sez.
3, Sentenza n. 14747 del 11/03/2008, Clementi). L'imputato va dunque
condannato.
Il proprietario (od il possessore) dell'area sulla quale
si trovano i rifiuti, che sia destinatario dell'ordinanza sindacale di
rimozione degli stessi, deve richiedere al giudice l'autorizzazione ad accedervi
onde provvedere alla rimozione, diversamente configurandosi la contravvenzione
di cui all'art. 255, comma 3, d.lgs. 152/06. Tribunale La Spezia, 20/04/2011,
n. 369.
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