1 Codice ambiente. Parte VI Titolo II Prevenzione e ripristino ambientale.
2 Ambiente . Danno ambientale per carenza di Via. Interpretazione del diritto comunitario.
L'omissione della procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA)
sicuramente conduce a specifiche conseguenze in grado di incidere
potenzialmente sulla legittimità e sulla correttezza dell'operato della
amministrazione pubblica, ma, di per sé, non attribuisce al cittadino un
diritto al risarcimento del danno patrimoniale subito in relazione alla
eventuale diminuzione del valore del suo bene. Corte giustizia UE, 14/03/2013
n. 420, sez. IV
I danni patrimoniali, qualora siano conseguenze economiche dirette
dell'impatto ambientale di un progetto pubblico o privato, rientrano tuttavia
nell'obiettivo di protezione perseguito da detta direttiva. In linea di
principio, la circostanza che una valutazione dell'impatto ambientale sia stata
omessa, in violazione di quanto prescritto da tale direttiva, di per sé non
conferisce ad un singolo, secondo il diritto dell'Unione e fatte salve le norme
del diritto nazionale meno restrittive in materia di responsabilità dello
Stato, un diritto al risarcimento di un danno puramente patrimoniale causato
dalla diminuzione del valore del suo bene immobile, conseguente all'impatto
ambientale di detto progetto. Spetta peraltro al giudice nazionale verificare
se siano soddisfatte le prescrizioni del diritto dell'Unione applicabili sul
risarcimento che richiedono, in particolare, l'esistenza di un nesso causale
diretto tra la violazione lamentata e i danni subiti. Corte giustizia UE, sez.
IV, 14/03/2013, n. 420
La direttiva 85/337 afferma che
i programmi d'azione delle Comunità europee in materia ambientale
sottolineano che la migliore politica ecologica consiste nell'evitare fin
dall'inizio inquinamenti ed altre perturbazioni, anziché combatterne successivamente
gli effetti e affermano che in tutti i processi tecnici di programmazione e di
decisione si deve tener subito conto delle eventuali ripercussioni
sull'ambiente; che a tal fine prevedono l'adozione di procedure per valutare
queste ripercussioni
La direttiva 85/337, articolo 2, paragrafo 1, prevede che gli Stati
membri adottano le disposizioni necessarie affinché, prima del rilascio
dell'autorizzazione, per i progetti per i quali si prevede un notevole impatto
ambientale, in particolare per la loro natura, le loro dimensioni o la loro
ubicazione, sia prevista un'autorizzazione e una valutazione del loro impatto.
A partire dall'adesione della Repubblica d'Austria all'Unione europea,
il 1° gennaio 1995, organi dei convenuti nel procedimento principale hanno
autorizzato ed eseguito, senza aver proceduto ad alcuna valutazione
dell'impatto ambientale, svariati progetti relativi alla ristrutturazione ed
all'ampliamento dell'aeroporto suddetto. Con decisione del 21 agosto 2001, il
ministro-presidente del Land Niederösterreich ha espressamente dichiarato che
una procedura di valutazione dell'impatto ambientale non era necessaria per
proseguire nella ristrutturazione dell'aeroporto di Vienna-Schwechat e
procedere a taluni ampliamenti di esso.
Nel 2009 la sig.ra Leth ha proposto dinanzi al Landesgericht für
Zivilrechtssachen Wien (Tribunale civile di Vienna) un ricorso contro i due
convenuti nel procedimento principale, nell'ambito del quale chiedeva, da un
lato, che questi ultimi fossero condannati a versarle una somma pari a EUR 120
000 a titolo di diminuzione del valore del suo bene immobile, in particolare a
causa del rumore aereo, e, dall'altro, che fosse dichiarata la responsabilità
di detti convenuti relativamente ai pregiudizi futuri, compresi i danni alla
sua salute dovuti alla trasposizione tardiva e incompleta delle direttive
85/337, 97/11 e 2003/35, nonché conseguenti all'omessa valutazione dell'impatto
ambientale al momento del rilascio delle diverse autorizzazioni concernenti la
ristrutturazione dell'aeroporto di Vienna-Schwechat.
LA Corte di giustizia chiamata ad un ainterepretazione
sull’applicazione della direttiva , al fine di porre rimedio ad un'omissione
della valutazione dell'impatto ambientale di un progetto ai sensi dell'articolo
2, paragrafo 1, della direttiva 85/337, ha affermato che spetta al giudice
nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o
di sospendere un'autorizzazione già rilasciata al fine di sottoporre detto
progetto ad una valutazione del suo impatto ambientale, conformemente a quanto
richiesto dalla direttiva 85/337, o, in alternativa, nel caso in cui il singolo
vi acconsenta, la possibilità per quest'ultimo di pretendere il risarcimento
del danno subito.
3 Ambiente. Danno. Responsabilità proprietario.
A carico del proprietario dell'area inquinata non responsabile della
contaminazione non incombe alcun obbligo di porre in essere gli interventi
ambientali in questione, avendo solo la facoltà di eseguirli al fine di evitare
l'espropriazione del terreno interessato gravato da onere reale, al pari delle
spese sostenute per gli interventi di recupero ambientale assistite anche da
privilegio speciale immobiliare. Pertanto, il provvedimento impositivo della
messa in sicurezza e bonifica ben può essere notificato al proprietario al fine
di renderlo edotto di tale onere (che egli ha facoltà di assolvere per liberare
l'area dal relativo vincolo), ma non può imporre misure di bonifica senza un
adeguato accertamento della responsabilità, o corresponsabilità, del
proprietario per l'inquinamento del sito. T.A.R. Friuli Venezia Giulia Trieste,
sez. I, 09/04/2013, n. 227.
Una significativa applicazione dei suddetti principio e corollari è
stata effettuata dall'Avvocato Generale J. Kokott nelle conclusioni presentate
in data 13 marzo 2008 relativamente alla causa C-188/07, Comune de Mesquer c.
Total France SA e Total International LTD, relativa ad un noto caso di
inquinamento marino da idrocarburi, con riguardo all'art. 15 della Direttiva
2006/12/CE.
Dette conclusioni sono state accolte dalla sentenza Corte di Giustizia,
Grande Sezione, del 24 giugno 2008.
L'Avvocato Generale ha correttamente concluso che "
l'addebitamento a singoli soggetti dei costi dello smaltimento di rifiuti che
essi non hanno prodotto sarebbe incompatibile con il principio "chi
inquina paga". A fronte di tale richiesta da parte delle autorità statali
gli interessati potrebbero, pertanto, opporre l'art. 15 della direttiva quadro
sui rifiuti ".
L'Avvocato Generale ha argomentato tale conclusione sulla base di una
nota sentenza della Corte di Giustizia (Corte giust. Ce, 7 settembre 2004, in
causa C-1/2003, Van de Walle et al.) : " La sentenza Van de Walle aveva ad
oggetto idrocarburi fuoriusciti da una stazione di servizio, che avevano
prodotto l'inquinamento del terreno circostante. In via di principio, la
responsabilità di tale evento ricade sul gestore della stazione di servizio che
ha acquistato gli idrocarburi per le proprie necessità aziendali e pertanto ne
era detentore ed è il soggetto che li aveva in deposito, per esigenze della sua
attività, nel momento in cui sono divenuti rifiuti ai sensi dell'art. 1, lett.
b), della Direttiva 75/443. Soltanto se il cattivo stato degli impianti di
stoccaggio della stazione di servizio e la fuoriuscita degli idrocarburi
fossero eccezionalmente imputabili ad una violazione degli obblighi
contrattuali incombenti alla compagnia petrolifera fornitrice della stazione di
servizio, ovvero a diversi comportamenti idonei a far sorgere la responsabilità
della detta compagnia, quest'ultima sarebbe responsabile. Per effetto della sua
attività, infatti, la compagnia petrolifera avrebbe prodotto rifiuti ai sensi
dell'art. 1, lett. b) , della Direttiva 75/442 ed essa potrebbe dunque essere
considerata la detentrice di tali rifiuti. Secondo la Corte, pertanto, i costi
devono essere sostenuti dal soggetto che ha prodotto i rifiuti. I soggetti
menzionati nell'art. 15 identificano invece soltanto l'insieme dei possibili
responsabili finanziari, all'interno del quale, in conformità al principio
"chi inquina paga", deve essere scelto il soggetto che deve sostenere
i costi. Detta interpretazione del principio "chi inquina paga" quale
principio per la ripartizione dei costi è conforme ad altre versioni
linguistiche che - a differenza della versione tedesca - non utilizzano il
concetto di causalità, ma affermano che chi inquina paga (Polluter pays, pollueur-payeur)
. [...] Applicato alla normativa ambientale, ciò consente innanzitutto di
concludere che non è possibile sostenere i costi dello smaltimento di rifiuti
prodotti da altri " (punti 118, 119 e 120) .
Ed infatti la citata sentenza della Corte giust. Ce, 7 settembre 2004,
in causa C-1/2003, Van de Walle et al., aveva puntualmente affermato che "
dalle disposizioni citate nei tre punti precedenti risulta che la Direttiva
75/442 distingue la materiale realizzazione delle operazioni di recupero o smaltimento
- che essa pone a carico di ogni "detentore di rifiuti",
indipendentemente da chi sia il produttore o il possessore degli stessi -
dall'assunzione dell'onere finanziario relativo alle suddette operazioni, che
la medesima direttiva accolla, in conformità del principio "chi inquina
paga", ai soggetti che sono all'origine dei rifiuti, a prescindere se
costoro siano detentori o precedenti detentori dei rifiuti oppure fabbricanti
del prodotto che ha generato i rifiuti " (punto 58) .
Per la giurisprudenza interna, Cons. Stato, Sez. V, 16 giugno 2009 n.
3885; TAR Toscana, Sez. II, 3 marzo 2010, n. 594; TAR Sicilia, Catania, Sez. I,
26 luglio 2007, n. 1254; TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 28 aprile 2011, n.
746; TAR Puglia, Lecce, Sez. I, ord. 1º dicembre 2010, che ha dichiarato
l'illegittimità di un'ordinanza con la quale è stata ordinata al proprietario
di una cava la bonifica del sito per l'inquinamento della falda sottostante,
nel caso in cui non sia possibile desumere una situazione di sicura imputabilità
dell'inquinamento al proprietario della cava) .
15. In sostanza, a carico del proprietario dell'area inquinata non
responsabile della contaminazione non incombe, dunque, alcun obbligo di porre
in essere gli interventi ambientali in questione, avendo solo la facoltà di
eseguirli al fine di evitare l'espropriazione del terreno interessato gravato,
per l'appunto, da onere reale, al pari delle spese sostenute per gli interventi
di recupero ambientale assistite anche da privilegio speciale immobiliare.
4 Ambiente . Danno . risarcimento Prescrizione.
E’ stata confermata, nella specie, la prescrizione del diritto al
risarcimento avanzata da alcuni cittadini in seguito al disastro ambientale di
Seveso, atteso che per i giudici del merito le lamentate lesioni dell'integrità
psichica sub specie di un danno morale da patema d'animo non costituivano,
manifestazioni di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi
con l'esaurimento dell'azione del responsabile, bensì un mero sviluppo e un
aggravamento del danno già insorto. Cassazione civile, sez. III, 22/04/2013, n.
9711.
La corte di appello di Milano, nel confermare la decisione di primo
grado, ha chiaramente e condivisibilmente specificato, da un canto, che,
vertendosi in tema di illecito istantaneo con effetti permanenti (come in tutte
le ipotesi di danno da inquinamento: ex multis, Cass. 1156 del 1995, nonchè,
implicitamente, Cass. 17985 del 2007), la condotta lesiva si esauriva, nella
specie, in un fatto quod unico actu perfecitur, un fatto destinato, cioè, ad
esaurirsi in una dimensione unitaria (sul piano logico e sostanzialmente
cronologico) di concreta realizzazione, a prescindere dalla eventuale diacronia
dei relativi effetti.
La prescrizione del diritto al risarcimento del danno ad esso conseguente
non poteva che iniziare a decorrere dal momento del fatto (rectius, della
concreta percezione o percepibilità di esso): le lamentate lesioni
dell'integrità psichica sub specie di un danno morale da patema d'animo non
costituivano, pertanto, manifestazioni di una lesione nuova ed autonoma
rispetto a quella manifestatasi con l'esaurimento dell'azione del responsabile,
bensì un mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto.
In termini, Cass. ss.uu. n. 580 del 2008, predicativa di un principio
di diritto perfettamente consonante con quello applicato dal giudice
territoriale, quello, cioè della permanenza del danno e non del fatto.
All'illecito permanente si ricollega non il danno permanente ma il
danno plurimo, destinato a rinnovarsi continuamente nel tempo - mentre quanto
si afferma nella sentenza 5831 del 2007 di questa corte evocata dai ricorrenti
attiene a fattispecie del tutto disomogenea e niente affatto sovrapponibile a
quella odierna.
Per lo stesso fatto-evento non si sarebbe comunque potuti essere
chiamati a rispondere due volte sul piano della responsabilità civile, pena la
irredimibile erosione dell'ineludibile principio (e dell'ineludibile esigenza)
di certezza delle situazioni e dei rapporti giuridici. Il ricorso va pertanto
rigettato.
5 Ambiente. Azione risarcitoria. Legittimazione ad agire.
La L. 3 luglio 1986, n. 349, art. 18 (istitutiva del Ministero
dell'ambiente) ha introdotto nel nostro ordinamento, quale forma particolare di
tutela, l'obbligo di risarcire il danno cagionato all'ambiente (alterazione,
deterioramento o distruzione anche parziale) a seguito di una qualsiasi
attività, dolosa o colposa, compiuta in violazione di un dispositivo di legge o
di un provvedimento adottato in base a legge.
E' stata così prevista una peculiare responsabilità di tipo
extracontrattuale (aquilana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un
danno "ingiusto" all'ambiente, dove l'ingiustizia è stata correlata
alla violazione di una disposizione di legge.
Il citato art. 18 prescriveva che l'azione di risarcimento del danno
ambientale, anche se esercitata in sede penale, potesse essere promossa dallo
Stato, nonchè dagli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del
fatto lesivo (comma 3).
La strada risarcitoria restava aperta ai privati solo ove lamentassero
la lesione di un bene individuale compromesso dal degrado ambientale, sia esso
la salute che il diritto di proprietà o altro diritto reale.
3.2 Il D.Lgs. n. 152 del 2006 (art. 318) ha espressamente abrogato (ad
eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto
di intervenire nei giudizi per danno ambientale) la L. n. 349 del 1986, art. 18
e, nell'art. 300 (commi l e 2), ha definito la nozione di "danno
ambientale" con riferimento a quella posta, in ambito comunitario, dalla
direttiva 2004/35/CE. Lo stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311 riserva
attualmente allo Stato, ed in particolare al Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio, il potere di agire, anche esercitando l'azione civile in
sede penale, per il risarcimento del danno ambientale (in forma specifica e, se
necessario, per equivalente patrimoniale).
Ai sensi del successivo art. 313, comma 7, comunque, "resta in
ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno
ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in
giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi
lesi".
Si è avuto così un ridimensionamento del ruolo degli enti locali, ai
quali è stata espressamente attribuita la sola facoltà di sollecitare
l'intervento statale (art 309) e di ricorrere in caso di inerzie od omissioni
(art. 310), ma non la legittimazione ad agire ed intervenire in proprio per il
risarcimento del danno ambientale.
Rientrano nella esclusiva pertinenza statale i profili strettamente
riparatori dell'ambiente in sè, mentre gli enti territoriali possono agire per
il risarcimento dei danni diversi, derivanti dalla lesione di interessi locati
specifici e differenziati di cui sono portatori, ad essi eventualmente arrecati
(vedi Cass., Sez. 3, n. 755/2009).
La normativa dianzi descritta si
affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale del
danno posta dal codice civile, sicchè le associazioni ambientaliste - pure dopo
l'abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in
caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno
ambientale (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9, comma 3, abrogato dal D.Lgs. n. 152
del 2006, art. 318) - sono legittimate alla costituzione di parte civile
"iure proprio", nel processo per reati che abbiano cagionato
pregiudizi all'ambiente, per il risarcimento non del danno all'ambiente come
interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei
danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi
rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell'ambiente
come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale (vedi
Cass., sez. 3: 3.10.2006, n. 36514, Censi; 11.2.2010, n. 14828, De Flammineis).
Le associazioni ambientaliste, dunque, sono legittimate a costituirsi
parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero
collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica
di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l'interesse
all'ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato
(vedi Cass., sez. 3: 25.1.2011, Pelloni; 21.6.2011, Memmo).
Ritiene il Collegio al riguardo (confermando l'orientamento espresso da
questa 3^ Sezione nella sentenza 21.6.2011, Memmo e nella consapevolezza delle
non convergenti posizioni enunciate nelle sentenze n. 14828/20010 e n.
41015/2010, contenente quest'ultima il riferimento ai solo "danni
patrimoniali") che il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica
possa configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all'attività
concretamente svolta dall'associazione ambientalista per la valorizzazione e la
tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In
tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di
valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari
sostenuti dall'ente per l'espletamento dell'attività di tutela.
La possibilità di risarcimento in favore dell'associazione
ambientalista, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all'ambito
patrimoniale di cui all'art. 2043 cod. civ., poichè l'art. 185 c.p., comma 2, -
che costituisce l'ipotesi più importante "determinata dalla legge"
per la risarcibitità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. -
dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non
patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto
passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi
"danneggiato" per avere riportato un pregiudizio eziologicamente
riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo.
Possono costituirsi parti civili sia le associazioni ambientaliste nazionali
sia le sedi locali di esse, che rappresentino un gruppo significativo di
consociati e che abbiano dato prova della continuità e della rilevanza del loro
contributo alla difesa dell'ambiente (vedi Cass., Sez. 3, n. 46746/2004). La
pretesa risarcitoria deve essere connessa però - è opportuno ribadirlo - ad un
pregiudizio diretto ed immediato e non ad un mero collegamento ideologico con
l'interesse pubblico, che resta diffuso e, come tale, non proprio del sodalizio
e non risarcibile.
Tenuto conto dei principi dianzi enunciati, va rilevato che la Corte di
merito - nella vicenda in esame - razionalmente ha ravvisato l'esistenza di un
pregiudizio concreto ed effettivo per la parte civile Comune di Alcamo,
cagionata dal degrado arrecato al suo territorio attraverso l'interramento
rudimentale delle polveri di ferro.
A diverse conclusioni deve pervenirsi, invece, con riferimento alle
parti ovili s.p.a. "AGESP" e del WWF Italia Onlus, limitandosi ad
argomentare:
- per la prima di esse, che trattasi di un'associazione (è invece una
società commerciale) che aveva la gestione della discarica e doveva
considerarsi danneggiata "a prescindere da eventuali corresponsabilità
personali dei propri dipendenti";
- per il WWF, che tale associazione, "quale ente riconosciuto che
ha come finalità statutaria la conservazione della natura e dei processi
ecologici e la tutela dell'ambiente in riferimento all'intero territorio
nazionale, è legittimata a costituirsi parte ovile ai fini del risarcimento dei
danni derivanti dal reato di traffico illecito dei rifiuti".
Tali enunciazioni, però, non si conformano ai principi dianzi enunciati
in quanto omettono di individuare quali siano i danni direttamente subiti dalle
due parti aviti in oggetto: danni che, come si è detto dianzi, devono essere
diretti e specifici, nonchè ulteriori e diversi rispetto a quello della lesione
dell'ambiente come bene pubblico.
Devono essere confermate, dunque, le statuizioni civili in favore del
Comune di Alcamo, mentre la sentenza impugnata deve essere annullata -
relativamente alle statuizioni civili in favore della s.p.a. "AGESP"
e del WWF Italia Onlus
6 Ambiente. Azione risarcitoria. Legittimazione ad agire. Stato.
L’art. 311 d.lg. 3 aprile 2006 n. 152 riserva allo Stato, e in
particolare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, il potere
di agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento
del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente
patrimoniale; ai sensi del successivo art. 313, comma 7, comunque, resta in
ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di
danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio
nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi. La
suddetta normativa “speciale” in materia di danno ambientale si affianca,
peraltro, non essendovi incompatibilità, alla disciplina generale del danno
prevista dal codice civile, sicché le associazioni ambientaliste, pure dopo
l’abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in
caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno
ambientale (art. 9, comma 3, d.lg. 18 agosto 2000 n. 267, abrogato dall’art.
318 del d.lg. n. 152 del 2006), sono legittimate alla costituzione di parte
civile "iure proprio", nel processo per reati che abbiano cagionato
pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come
interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola o associata) dei
danni direttamente subiti, diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a
quello, generico di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene
pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale. In questa
prospettiva e con questi limiti, le associazioni ambientaliste sono quindi
legittimate a costituirsi parte civile avendo il diritto al risarcimento del
danno, non solo patrimoniale (in relazione, per esempio, agli eventuali esborsi
finanziari sostenuti dall’ente per l’espletamento dell’attività di tutela), ma
anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all’attività da esse
concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale
incidono i beni oggetto del fatto lesivo. Cassazione penale, sez. III,
17/01/2012, n. 19439
7
Ambiente. Azione
risarcitoria.
E’ ammissibile la condanna al
ripristino dello stato dei luoghi, ancorché inizialmente fosse stato richiesto
il risarcimento per equivalente e solo successivamente, in sede di precisazione
delle conclusioni, sia stato domandato il risarcimento informa specifica.
Cassazione civile, sez. III, 10/12/2012, n. 22382.
L'art. 311, a sua volta, dopo aver previsto al comma 1 che il Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio agisce (...) per il risarcimento
del danno in forma specifica e, se è necessario, per equivalente patrimoniale,
stabilisce, al secondo che, chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo
attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o
di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o in
spregio a norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo,
deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino
della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente
patrimoniale nei confronti dello Stato.
La disciplina sopravvenuta si applica anche alle domande già proposte,
con il solo limite, affatto scontato, dei giudizi ormai definiti con sentenza
passata in giudicato (confr. Cass. civ. 9 febbraio 2011, n. 6551).
Il legislatore del 2009,
nell'ottica di una normazione che aveva (ed ha) chiaramente per destinatario il
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio nel quale sono state ora
centralizzate le azioni risarcitorie per danno all'ambiente, mostra di
privilegiare la tutela reale, quale forma ontologicamente più idonea di quella
per equivalente a garantire l'effettività dei risultati della reazione del
soggetto leso dal lamentato danno ambientale e della risposta giudiziaria che
ne riconosca il fondamento.
Ancorchè la nuova disciplina ignori del tutto - al pari, del resto, di
quella preesistente - il problema squisitamente processuale del rapporto tra
domanda di riduzione in pristino (id est, di risarcimento in forma specifica) e
domanda di risarcimento per equivalente, significativi spunti di riflessione possono
tuttavia trarsi dalla non occulta intenzione del legislatore (art. 12, comma
1).
E in proposito non può non sfuggire che il legislatoredel 1986, dopo
avere dettato i criteri di quantificazione del danno, secondo una logica
sottilmente punitiva - evidenziata dal riferimento alla gravità della colpa
individuale e al profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo
comportamento - apriva al giudice la facoltà di disporre nella sentenza di
condanna, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del
responsabile.
L'allocazione della norma e il carattere asciutto del dettato, privo di
qualsivoglia riferimento al contenuto dell'azione proposta dallo Stato o
dall'ente territoriale di volta in volta legittimato (art. 18, comma 3), rendono
la tesi della potenziale officiosità dell'ordine di ripristino - e cioè del
risarcimento in forma specifica - assai meno stravagante di quanto possa a
prima vista sembrare.
in realtà, la norma appare scritta sul postulato di fondo che la
richiesta di tutela reale debba sempre e comunque considerarsi insita nella
domanda di risarcimento del danno ambientale. E una volta adottata tale
prospettiva, già intravista dalla più avveduta dottrina, non può non
attribuirsi un carattere sostanzialmente liquido alla scelta operata dalla
parte attrice nell'atto introduttivo del giudizio, di talchè il passaggio dalla
richiesta di tutela per equivalente a quella reale, in chiave sollecitativa di
una facoltà riconosciuta al giudice, mal si presterebbe a essere imbrigliato
nell'armatura delle preclusioni processuali.
Siffatto approdo esegetico è confermato, a giudizio del collegio, dal
tenore del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, comma 2, come riscritto dal
legislatore del 2009, norma che, circoscrivendo l'operatività della tutela
risarcitoria per equivalente ai soli casi in cui l'effettivo ripristino o
l'adozione di misure di riparazione complementare o compensativa risultino in
tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi
dell'art. 2058 cod. civ., o comunque attuati in modo incompleto o difforme
rispetto a quelli prescritti, colloca tout court il risarcimento per
equivalente in posizione gradata rispetto alla tutela reale.
Peraltro l'applicazione delle norme di rito in chiave preclusiva della
possibilità di accedere alle misure ripristinatorie non sarebbe conforme al
criterio dell'interpretazione adeguatrice elaborato dalla giurisprudenza
comunitaria e ripetutamente accolto da questa Corte. Non par dubbio infatti
che, al fine di evitare il più possibile distonie tra diritto europeo e diritto
interno, i principi del primo - come, nella fattispecie, il principio della
preminenza delle misure di ripristino dello stato dei luoghi, contenuto nella
Direttiva 2004/35/CE - influenzano l'interpretazione di tutto il diritto
nazionale anche se non di diretta derivazione comunitaria (confr. Corte di
giustizia C-404/2006, Quelle; Cass. civ. sez. un. 17 novembre 2008, n. 27310;
Cass. civ. 22 febbraio 2012, n. 2632).
8
Ambiente. Disastro
ambientale. Misure cautelari personali. Applicabilità.
In tema di misure cautelari personali, ai fini
della valutazione del pericolo che l'imputato commetta ulteriori reati della
stessa specie, il requisito della "concretezza", cui si richiama
l'art. 274 comma 1 lett. c) c.p.p., non si identifica con quello di
"attualità" derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni
prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, dovendo, al contrario,
essere riconosciuto alla sola condizione, necessaria e sufficiente, che esistano
elementi "concreti" (cioè non meramente congetturali) sulla base dei
quali possa affermarsi che l'imputato, verificandosi l'occasione, possa
facilmente commettere reati che offendono lo stesso bene giuridico di quello
per cui si procede. Cassazione penale, sez. I, 16/01/2013, n. 15667.
E' stato evidenziato, altresì, che il disastro
ambientale era certamente riconducibile anche alla gestione successiva quando il ricorrente è subentrato il gruppo
Riva nella proprietà e nella gestione dello stabilimento siderurgico e che gli
accertamenti effettuati hanno chiarito che l'inquinamento è attuale.
E' risultato che le concrete modalità di gestione
dello stabilimento siderurgico dell'ILVA hanno determinato la contaminazione di
terreni ed acque e di animali destinati all'alimentazione umana in un'area
vastissima che comprende l'abitato di…. e di paesi vicini, nonchè, un'ampia
zona rurale tra i territori di….
Tale contaminazione è tale da integrare, ad
avviso del tribunale, i contestati reati di disastro doloso, omissione dolosa
di cautele contro infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque, posti in essere
con condotta sia commissiva che omissiva, con coscienza e volontà per
deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti che si sono
avvicendati alla guida dell'ILVA i quali hanno continuato a produrre
massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza con effetti
destinati ad aggravarsi negli anni.
Rilevanti ai fini della valutazione in esame sono
stati ritenuti, quindi, l'entità del danno e del pericolo cagionati
all'ambiente e alla salute dei cittadini, nonchè, la continuità nel tempo dei
fatti illeciti e la natura essenzialmente dolosa delle condotte, oltre ai
notevoli profitti conseguiti omettendo quegli investimenti che dovevano essere
realizzati per ridurre le emissioni inquinanti.
Quanto alla concretezza del pericolo di recidiva
i giudici di merito hanno, invero, messo in luce i comportamenti posti in
essere dai ricorrenti che palesano la reiterazione delle condotte illecite già
da tempo accertate.
Si afferma nell'ordinanza impugnata che le
emissioni che scaturivano dagli impianti, risultate immediatamente evidenti sin
dall'insediamento nel 1995 del gruppo dirigente dello stabilimento ILVA, sono
proseguite successivamente, come emerso in più occasioni, e l'azienda, pur
avendo assunto di volta in volta l'impegno di provvedere alla riduzione delle
emissioni nocive, ha dimostrato poi di non avere ottemperato.
Alla luce di ciò, il tribunale ha, quindi,
sottolineato la pervicacia e la spregiudicatezza dimostrata da R.E. e dal C.,
ma anche da R.N., succeduto alla presidenza del consiglio di amministrazione in
continuità con il padre, che hanno dato prova, nei rispettivi ruoli, di
perseverare nelle condotte delittuose, nonostante la consapevolezza della
gravissima offensività per la comunità e per i lavoratori delle condotte stesse
e delle loro conseguenze penali e ad onta del susseguirsi di pronunzie
amministrative e giudiziali che avevano già evidenziato il grave problema
ambientale creato dalle immissioni dell'industria.
9
Ambiente. Disiastro
ambientale. Rinuncia ad essere parte civile nel processo penale. Responsabilità
contabile.
La proposta di transazione di Enel rivolta alla
giunta di Porto Tolle prevede la corresponsione di 130mila euro in cambio di
rinunciare ad essere parte civile nel processo penale per disastro ambientale
che vede coinvolti i tecnici e i vertici del colosso energetico e rinunciare ad
ulteriori procedimenti contro l’azienda. Cass pen 16422 del 27 aprile 2011
Sorge il problema se la Corte dei Conti dovrebbe
esser notiziata della rinuncia delle amministrazioni locali ad essere parte
civile nel processo penale di Disiastro ambientale
Tale conclusione è evidente dopo che l’articolo 313, D.L.vo 152/2006, è stato
modificato dall’art. 25, comma 1, lettera i), della Legge 6 agosto 2013, n. 97.
La norma
dispone che qualora all'esito dell'istruttoria sia stato accertato un fatto che
abbia causato danno ambientale ed il responsabile non abbia attivato le
procedure di ripristino ai sensi del titolo V della parte quarta del presente
decreto oppure ai sensi degli articoli 304e seguenti, il Ministro dell'ambiente
e della tutela del territorio, con ordinanza immediatamente esecutiva, ingiunge
a coloro che, in base al suddetto accertamento, siano risultati responsabili
del fatto il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica
entro un termine fissato.
Qualora il
responsabile del fatto che ha provocato danno ambientale non provveda in tutto
o in parte al ripristino nel termine ingiunto o all'adozione delle misure di
riparazione nei termini e modalità prescritti, il Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio e del mare determina i costi delle attività
necessarie a conseguire la completa attuazione delle misure anzidette e, al
fine di procedere alla realizzazione delle stesse, con ordinanza ingiunge il
pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, delle somme
corrispondenti.
Con riguardo
al risarcimento del danno in forma specifica, l'ordinanza è emessa nei
confronti del responsabile del fatto dannoso nonché, in solido, del soggetto
nel cui effettivo interesse il comportamento fonte del danno è stato tenuto o
che ne abbia obiettivamente tratto vantaggio sottraendosi, secondo
l'accertamento istruttorio intervenuto, all'onere economico necessario per
apprestare, in via preventiva, le opere, le attrezzature, le cautele e tenere i
comportamenti previsti come obbligatori dalle norme applicabili. L’ordinanza è
adottata nel termine perentorio di centottanta giorni decorrenti dalla
comunicazione ai soggetti di cui al comma 3 dell'avvio dell'istruttoria.
Nessun commento:
Posta un commento