1
La classificazione del
silenzio.
Per il principio
della tipizzazione degli atti amministrativi - che vede gli atti imputabili
all’amministrazione espressamente disciplinati dalla legge - il silenzio, ossia
la mancanza di determinazione su istanze di privati o su procedimenti dovuti
all’iniziativa della stessa amministrazione, acquista gli effetti riconosciuti
dalla legge speciale dal procedimento medesimo.
La dottrina
precisa che affinché il silenzio possa assumere un determinato significato,
costituendo quindi una manifestazione tacita di volontà della amministrazione
pubblica, occorre che la legge attribuisca ad esso un valore positivo o
negativo (cosiddetto silenzio tipizzato) ovvero che si verifichi in circostanze
tali da conferirgli il significato di un atto concludente (Virga P., Diritto amministrativo, Atti e
ricorsi,1987, 43).
La dottrina evidenzia che il silenzio può essere
classificato in tre diverse categorie, aventi effetti giuridici differenti, a
prescindere dalla terminologia usata dal legislatore: il silenzio
inadempimento, il silenzio rigetto e il silenzio assenso (Bassi F. Appunti
dalle lezioni di diritto amministrativo, 1979, 57).
Il silenzio inadempimento - o rifiuto a provvedere da
parte della pubblica amministrazione - si concreta nella mancanza di una
decisione su una domanda dell'interessato, fatto che impedisce al richiedente
di ottenere un provvedimento e che comporta la necessità di un intervento da
parte del soggetto istante per ottenere un provvedimento impugnabile, parificato
al diniego (Sempreviva M.T., L’accesso ai documenti amministrativi, in
Caringella F. (a cura di) Corso di diritto amministrativo, 2004,
1299).
Il silenzio
rigetto si verifica quando la disposizione di legge sancisce direttamente che,
decorso un termine prefissato dal momento della presentazione dell’istanza da
parte del richiedente senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione,
la richiesta medesima si intende rigettata.
La dottrina nota, peraltro, come la giurisprudenza
estenda l’esperibilità della misura dell’invito a provvedere entro un termine
prestabilito anche qualora l’indicazione normativa preveda ipotesi di silenzio
rigetto; per questo viene meno anche il significato di una distinzione (Giannini
M.S., Diritto amministrativo, 1988, 773).
Il silenzio
accoglimento si verifica, in talune ipotesi tassativamente previste, qualora il
silenzio dell’amministrazione sulla domanda del richiedente acquisti, nella
dizione del legislatore, effetti positivi.
Altra dottrina
classifica la disciplina del silenzio in relazione alla forma di tutela
prevista dal legislatore: vi sono, quindi, i rimedi funzionali al giudizio
amministrativo e quelli non funzionali.
Fra i rimedi
funzionali al giudizio amministrativo è compresa la disciplina del silenzio
rifiuto a provvedere e quella del silenzio rigetto; fra quelli non funzionali
il silenzio assenso (Lignani P.G. , Silenzio (diritto amministrativo),
in Enc. Dir., XLII, 1990, 573).
2
Il
silenzio inadempimento o rifiuto a provvedere.
Il silenzio
inadempimento, o rifiuto a provvedere della pubblica amministrazione, si
concreta nell'omessa decisione su una domanda dell'interessato che impedisce al
richiedente di ottenere un provvedimento.
La
dottrina rileva che il silenzio inadempimento non riguarda tutte le ipotesi di
comportamento inerte della p.a. ma solo quelle relative all’esercizio di un
potere propriamente amministrativo con l’esclusione quindi degli atti
paritetici quale ad esempio l’inadempimento contrattuale (Caringella F., Corso
di diritto amministrativo, 2004, 1300).
La norma prevede
una procedura articolata nella presentazione da parte dell'interessato di
un'istanza all'amministrazione e nella successiva diffida a provvedere entro il
termine fissato per procedere alla eventuale azione giudiziaria:
L'omissione di
atti o di operazioni, al cui compimento l'impiegato sia tenuto per legge o per
regolamento, deve essere fatta constare da chi vi ha interesse mediante diffida
notificata all'impiegato e all'Amministrazione a mezzo di ufficiale
giudiziario.
Quando si tratti
di atti o di operazioni da compiersi ad istanza dell'interessato, la diffida è
inefficace se non siano trascorsi sessanta giorni dalla data di presentazione
dell'istanza stessa.
Qualora l'atto o
l'operazione faccia parte di un procedimento amministrativo, la diffida è
inefficace se non siano trascorsi sessanta giorni dalla data di compimento
dell'atto od operazione precedente ovvero, qualora si tratti di atti od
operazioni di competenza di più uffici, dalla data in cui l'atto precedente,
oppure la relazione o il verbale della precedente operazione, trasmesso
dall'ufficio che ha provveduto, sia pervenuto all'ufficio che deve attendere
agli ulteriori incombenti.
Se le leggi ed i
regolamenti amministrativi, ovvero i capitolati generali o speciali e i
disciplinari di concessione, stabiliscono per il compimento di determinati atti
od operazioni termini più brevi o più ampi di quelli previsti dalla legge
sull’accesso la diffida è efficace se notificata dopo la scadenza del termine
entro il quale gli atti o le operazioni debbono essere compiuti, secondo la
specifica norma che li concerne.
Qualora
l’amministrazione lasci decorrere i termini assegnati con l’atto di diffida,
l’interessato può ricorrere alla giustizia amministrativa per ottenere una
sentenza che accerti l’inadempimento e che imponga all’amministrazione di
pronunciarsi (Galli R., Corso di diritto amministrativo 1996, 496).
La
giurisprudenza ha precisato che nel quadro normativo antecedente per
l’impugnabilità del silenzio serbato dalla p.a. rilevavano i principi enunciati
dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 1978, per i quali, a
seguito del decorso di sessanta giorni dalla proposizione di una istanza,
l’interessato poteva notificare la diffida e poi proporre il ricorso
giurisdizionale, in applicazione analogica dell’art. 25 t. u. n. 3 del 1957.
Tale principio andava applicato anche nel caso di mancata rinnovazione del
procedimento di pianificazione a seguito della decadenza del vincolo
preordinato all’esproprio. (Cons. Stato , sez. IV, 31.7.
2009, n. 4843).
3
La legge
sull’accesso al procedimento amministrativo.
Il regime
giuridico del silenzio delle amministrazioni pubbliche evidenzia sicuramente la
loro supremazia nel rapporto che intercorre con le parti private per quanto
attiene ai procedimenti che iniziano su istanza.
In un
procedimento tipico la cui scansione è evidenziata dalla legge, la pubblica
amministrazione non può sottrarsi al dovere di emettere un provvedimento che
risponda in termini positivi o negativi a quanto richiesto.
A prescindere da
evidenti necessità processuali, la risposta all’istanza appare un dovere
precipuo dell’amministrazione se essa è davvero al servizio del cittadino.
Tale situazione
di non parità, in carenza di una legge generale sul procedimento
amministrativo, non ha più giustificazione con l'entrata in vigore della l.
7.8.1990, n. 241, che detta norme generali per il procedimento amministrativo e
fissa, all’art. 2, l’obbligo di concludere il procedimento.
La legge
consacra il principio dell’obbligo a provvedere entro termini prefissati da
regolamenti o, in carenza di questi, entro trenta giorni dalla domanda:
all’interprete, quindi, sembrava che non fosse consentito ipotizzare un
silenzio inadempimento, ma che fosse possibile solo prevedere un possibile
silenzio-diniego che trova sostanzialmente conferma con la consumazione
temporale del potere di provvedere.
Un filone
giurisprudenziale, invero, ha tentato di classificare l’ipotesi fra quelle di
silenzio diniego, affermando che, di fronte al silenzio della pubblica
amministrazione, non sono più necessarie, ai fini della proposizione del
ricorso giurisdizionale, la diffida e la messa in mora di cui all'art. 25, t.u.
10.1.1957, n. 3.
Il termine di
trenta giorni, fissato dalla l. 241/1990, è considerato essenziale per
l'espressa e motivata conclusione del procedimento amministrativo,
l'inadempimento di tale obbligo da parte della pubblica amministrazione
procedente è in re ipsa, e può quindi essere immediatamente denunciato
in via di azione
(T.A.R. Puglia
sez. I, Lecce, 25.6.1996, n. 574, in T.A.R., 1996, I, 3458).
Sulla scorta
della considerazione che i primi tre commi dell'art. 2, l. 7.8.1990, n. 241,
hanno introdotto nell'ordinamento un procedimento di formazione automatica del
silenzio - notevolmente diverso rispetto alla sequenza finora utilizzata: 1)
istanza del privato; 2) successiva diffida giudizialmente notificata - una
giurisprudenza assolutamente minoritaria ritiene non necessaria per
l’impugnazione la preventiva diffida.
In
base al comma 5 dell'art. 2, l. n. 241 del 1990, come riformulato dalla l. n.
80 del 2005, il ricorso avverso il silenzio
dell'Amministrazione, ai sensi dell'art. 21 bis,
l. 6 .12.1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida
all'Amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e
comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai predetti commi
2 e 3. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza.
Sicché, per un verso non è più necessaria la diffida,
per altro verso il giudice - quanto meno nei casi di attività non discrezionale
dell'Amministrazione - può non limitarsi ad accertare la perdurante inerzia
dell'Amministrazione stessa, ma ha la facoltà di verificare la fondatezza
sostanziale dell'istanza. (T.A.R. Campania Napoli, sez.
VII, 9.2.2010, n. 808).
4
Dalla
necessità alla facoltà della diffida nell’art.117 d.lgs. 104/2010 .
La prevalente
giurisprudenza ha ritenuto che sussista ancora la necessità della diffida per
potere procedere all’impugnazione del silenzio rifiuto, ai sensi dell’art. 25
del t.u. 3/1957, anche dopo l'entrata in vigore della
l. 7 .8.1990, n. 241.
Ove
sussista per la p.a. un obbligo di provvedere in relazione ad una richiesta di
parte, il soggetto che sia interessato alla definizione del procedimento
attivato per impugnare il relativo silenzio inadempimento, strumentale
alla rimozione dell'inerzia amministrativa, ha l'onere di seguire il rigoroso
iter ordinario caratterizzato, dalla presentazione di una istanza e dal silenzio
protrattosi per almeno sessanta giorni dalla successiva diffida a
provvedere entro un congruo termine, comunque non inferiore a trenta giorni,
notificata secondo la procedura prevista per gli atti giudiziari. (Cons. Stato , sez. IV, 9.11.2005,
n. 6249).
L'art.
2, l. 241 del 1990, è stato successivamente modificato con l'art. 3, d.l. n. 35
del 2005, convertito in l. n. 80 del 2005, il cui comma 5 ha previsto che, una
volta scaduti i termini previsti dalla legge o dal regolamento per provvedere
su un'istanza del privato, l'impugnazione del silenzio può
essere proposta anche senza necessità di diffida
all'Amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e
comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini. Il venir meno
dell'obbligo della diffida ai
fini dell'impugnabilità in sede giurisdizionale del silenzio-inadempimento
(che era volta a dare un significato tipico al silenzio
rifiuto), non esclude la possibilità per il soggetto che ha rivolto un'istanza
alla P.A. rimasta inevasa, di far constatare, mediante apposita formale diffida ad
adempiere o atto di messa in mora, l'elusione dei doveri provvedimentali della
stessa Amministrazione, in vista della sua impugnativa. (T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 3.1.2008,
n. 11).
Solo
in talune fattispecie particolari è richiesta la diffida.
Per
quanto riguarda il procedimento di condono edilizio disciplinato dagli artt. 31
ss., l. 28.2.1985, n. 47, l'inutile decorso del termine assegnato all'Autorità
comunale per la definizione delle domande di sanatoria presentate dai soggetti
interessati al condono degli abusi edilizi comporta il loro accoglimento
tacito, l'inutile decorso di tale termine non configura in alcun modo un silenzio
rifiuto impugnabile, ex art. 2, comma
5, l. 7.8.1990, n. 241, con la conseguenza che, qualora il soggetto richiedente
il condono voglia comunque ottenere una pronuncia espressa sulla relativa
domanda per far constatare l'inerzia provvedimentale dell'amministrazione, deve
necessariamente diffidare la medesima ad adempiere, in modo da potere
attribuire all'eventuale sua ulteriore inerzia un chiaro significato di
inadempimento ai doveri di provvedere imposti dalla legge, ai fini della
successiva tutela giurisdizionale. (T.A.R. Marche Ancona, sez. I,
28.12.2006, n. 1557).
Per
la giurisprudenza resta comunque ferma la necessità di una formale istanza da
parte dell'interessato Ai fini della formazione del silenzio
inadempimento, pur non occorrendo alcuna diffida ad
adempiere, come stabilito dall'art. 2 comma 4 bis, l. n. 241 del 1990. Solo mediante un simile atto si possono
individuare le ragioni da porre alla base dell'asserito obbligo di provvedere e
risulta possibile circoscrivere, anche temporalmente, il lamentato
comportamento inerte od inadeguato dell'amministrazione, rendendosi possibile,
altresì, la concreta verifica delle possibili iniziative, ai fini del
soddisfacimento della pretesa del richiedente, che siano state eventualmente
intraprese dalla competente autorità. (T.A.R. Campania Salerno, sez.
II, 16.6.2008, n. 1944).
L’art. 117 , d.lgs. 104/2010 precisa
che i l ricorso avverso il silenzio è proposto, anche senza previa diffida, con
atto notificato all’amministrazione e ad almeno un contro interessato.
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