2. Il codice civile.
Le
distanze da tenere fra le proprietà confinanti sono disciplinate dal codice
civile nel libro III, titolo I, capitolo I, sezioni V e VI.
La
dottrina comprende tale disciplina fra le norme che definiscono i rapporti di
vicinato ossia i rapporti che regolano il godimento degli immobili in relazione
a quelli ad essi confinanti od adiacenti.
Sostanzialmente
è una disciplina che limita, nel rispetto dei diritti del confinante, le
possibilità di utilizzo e di godimento del proprietario.
La disciplina dei rapporti di vicinato
sancisce limiti alla proprietà fondiaria nel rispetto reciproco dei proprietari,
a tutela, quindi, di interessi privati.
Le norme di vicinato possono, tuttavia,
rispondere anche a finalità pubbliche, come le norme sulle istanze nelle
costruzioni. Esse acquistano, allora, carattere di inderogabilità
(Bianca 1999, 227).
Nella Relazione al Codice
civile del 1942 si afferma che la normativa del c.c. che disciplina le distanze
fra costruzioni è determinata da due regole fondamentali, già presenti nel
precedente codice del 1865: l’obbligo di rispettare fra costruzioni su fondi confinanti
la distanza di tre metri o quella maggiore stabilita dai regolamenti locali e
il diritto di chiedere la comunione del muro costruito dal vicino sul confine o
a distanza minore della metà di quella che deve intercorrere fra costruzioni (Galletto
1990, 453).
La
dottrina ha accolto con favore la collocazione data alla materia nel nuovo
codice, visto che veniva accentuata la distinzione fra le limitazioni legali
della proprietà e la servitù.
Non è
stato tuttavia pacifico valutare se le limitazioni legali riguardanti i
rapporti di vicinato, previste nel codice del 1942, siano assimilabili o meno
alle servitù coattive.
La
maggioranza degli autori ribadisce che le limitazioni legali della proprietà si
differenziano dalla servitù dato che il potere attribuito al proprietario del
fondo confinante deriva dallo stesso diritto di proprietà e non da un diritto a
sé stante.
I
suddetti istituti si distinguono, inoltre, poiché i rapporti di vicinato hanno
carattere statico, in quanto sono intesi a prevenire i conflitti fra più
proprietari, mentre le servitù coattive hanno un carattere dinamico, in quanto
hanno lo scopo di favorire un migliore sfruttamento del suolo e di accrescerne
la produttività.
Le
servitù rappresentano uno squilibrio tra due proprietà fondiarie, l’una delle
quali (fondo servente) è unilateralmente asservita ad un’altra (fondo
dominante) che dall’asservimento ritrae una utilità: da ciò segue che, in
ordine a questa utilità, prevale il diritto conferito al proprietario del fondo
dominante, mentre solo come elemento consequenziale deriva la limitazione della
proprietà del fondo servente.
Al
contrario nelle limitazioni legali della proprietà, l’elemento primario è
costituito dal limite posto alla proprietà fondiaria; solo come conseguenza
deriva il diritto del vicino di pretenderne l’osservanza.
(Albano
1968, 1134).
La normativa civilistica definisce, innanzitutto, il
rapporto con le disposizioni fissate dai piani regolatori, stabilendo il limite
di efficacia delle stesse norme del c.c., artt. 869 e ss.
L’introduzione delle esigenze pubblicistiche portate dalla
pianificazione urbanistica, affermate con l’approvazione della legge
urbanistica del 1942, dà un valore minimale a tale normativa; dette norme
civilistiche trovano, infatti, vigore solo nel caso che la normativa di piano
non disciplini diversamente il regime delle distanze, avuto riguardo alla
diversa zonizzazione del territorio comunale.
Lo
stesso rinvio alla disciplina delle distanze stabilita dai regolamenti edilizi
locali effettuato dall’art. 873 c.c. riveste un significato minimale ai tempi
di promulgazione della norma.
Il
numero dei comuni con piani regolatori approvati era, infatti, allora di
modesta incidenza rispetto al numero di quelli privi di strumenti urbanistici.
L’obbligatorietà
di tali piani imposta anche per i comuni di minori dimensioni comporta che la
normativa di cui al c.c. ha, oramai, una limitata attuazione.
Le norme del codice civile si devono applicare, infatti,
solo nel caso in cui gli strumenti urbanistici non dispongano espressamente in
materia di distanze (Centofanti 2000, 169).
Le
costruzioni su fondi confinanti, se non sono unite od aderenti, devono essere
tenute ad una distanza non inferiore ai tre metri. Nei regolamenti locali può
essere stabilita una distanza maggiore
(art. 873
c.c.).
L’art. 872 c.c. disciplina le conseguenze delle infrazioni
alla normativa sulle distanze sancita dalle norme civili e quelle, sicuramente
meno gravi, relative alle violazione delle norme amministrative, anche se
alcune disposizioni amministrative acquistano la stessa forza vincolante di
quelle civilistiche.
La normativa civilistica articola la disciplina sulle
distanze fra le costruzioni consentendo
la facoltà di esercizio dello ius
aedificandi anche sul confine, ex artt. 873 ss.
L’assoluta parità delle posizioni fra i privati confinanti,
cui essa si ispira, determina la possibilità per chi costruisce successivamente
di rendere comune il muro realizzato sul confine.
Una dettagliata disciplina è stabilita per le distanze da
tenere da pozzi, fabbriche, canali e dagli alberi, ex artt. 889 ss.
Il codice definisce poi il regime delle aperture che si
possono realizzare sul fondo del vicino distinguendo fra luci, che consentono
il mero passaggio di luce ed aria, e vedute, che, invece, danno la possibilità
al vicino di affacciarsi sul fondo altrui, ai sensi degli artt. 900 e ss. c.c.
La dottrina afferma che esse sono delle limitazioni legali
alla stessa proprietà (Gambaro 1995, 533).
Secondo la dottrina tali limitazioni hanno sicuramente ad
oggetto l’interesse privato dei singoli proprietari.
La disciplina delle
distanze è dettata al fine di assicurare l’armonica coesistenza della
possibilità del contemporaneo esercizio di più diritti dei singoli proprietari
su immobili confinanti o vicini, nonché di assicurare indirettamente bisogni
elementari della vita come luce, aria ed acqua, ovvero a tutelare l’igiene
delle edifici
(Messineo 1952, 265).
Altri autori considerano la normativa che regola le distanza
sotto il profilo oggettivo e affermano come gli scopi primari siano quelli di
impedire la costituzione di intercapedini e l'insorgere di situazioni nocive
per l’igiene, di prevenire l’insorgere di incendi e di attuare una
programmazione edilizia (Terzago e Terzago 2000, 165).
Le norme di cui al c.c. in materia di
distanze non sono limitative dei diritti di proprietà o di libertà in quanto
rispondono a principi di generalità e regolano i rapporti di tutti i cittadini.
Le norme che
regolano le distanze nelle costruzioni su fondi finitimi, in quanto dettate
nell'interesse generale, non si pongono in contrasto con gli artt. 1 e 8 del
Protocollo addizionale alla convenzione di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, resa esecutiva con l’art. 1, l. 4 agosto 1955, n. 848
(Cass. civ.,
sez. II, 19 maggio 1999, n. 4844, GCM,
1999, 1105).
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