1
Il silenzio sul
ricorso amministrativo come paralisi del rimedio giurisdizionale.
Il
problema del silenzio dell’amministrazione sui ricorsi amministrativi si è
posto per operatori e studiosi sin dai primi anni di attività della IV sezione
del Consiglio di Stato, istituita con la l. 31.3.1889, n. 5892.
Il
problema ha due diversi aspetti.
In
primo luogo la legge ha consentito di impugnare alla IV sezione un atto
amministrativo lesivo e considerato illegittimo.
Nell’ipotesi
in cui la lesione all’interesse del privato derivi dalla mancanza
dell’emanazione di un atto - nel caso di specie dalla mancata decisione su di
un ricorso amministrativo - e non dalla emanazione di un atto illegittimo,
viene a mancare l’oggetto stesso del ricorso.
Il
secondo aspetto del problema è il fatto che la legge, allora vigente, ammetteva
il ricorso alla IV sezione solo contro l’atto definitivo - ossia l’atto
dell’autorità competente a pronunciarsi in ultima istanza.
Di
conseguenza l’interessato aveva l’obbligo di ricorrere a tutti i rimedi interni
all’amministrazione prima di poter ricorrere alla IV sezione.
In tal
caso l’autorità gerarchicamente superiore poteva ritardare l’accesso alla
giustizia amministrativa semplicemente non decidendo sul ricorso
amministrativo, visto che in tale maniera non si formava l’atto definitivo. Il
problema che si poneva era di identificare ai fini della tutela il momento in
cui si costituiva il silenzio parificabile a un non-provvedimento oggetto
possibile di impugnazione.
La
dottrina rileva che, per un certo tempo, il problema del rifiuto tacito e del
silenzio sul ricorso gerarchico è rimasto insoluto, non già per ostacoli di
ordine concettuale, bensì per una difficoltà di ordine pratico: quella di
individuare, in carenza di un’apposita norma, un criterio oggettivo e sicuro
che permettesse di cogliere il momento in cui il silenzio da fisiologico
diviene patologico e può dunque essere equiparato al rifiuto o al rigetto (Lignani
P.G., Silenzio (diritto amministrativo), in Enc. Dir., XLII, 1990,
563).
Il
silenzio si definisce in rapporto al tempo trascorso fra domanda e decisione.
Trascorre
inevitabilmente un certo lasso di tempo fra il momento in cui si determinano i
presupposti perché l’autorità si pronunci e quello in cui, di fatto, la stessa
si pronuncia.
Un
silenzio più o meno prolungato, concretamente, si verifica in tutte le fattispecie,
senza alcuna esclusione.
Per
avere effetti giuridici, invece, il silenzio deve avere una certa durata di
modo che gli si possa attribuire un qualche rilievo.
Il
tempo è un elemento costitutivo, anzi essenziale, del silenzio come istituto
giuridico.
Rimane,
però, da definirne l’entità.
Nel
1902 si pronunciava la storica decisione Longo: il silenzio poteva essere
equiparato al rigetto del ricorso gerarchico, nel momento in cui era scaduto il
termine fissato dall’interessato attraverso un apposito atto di diffida o messa
in mora:
La
decisione ha affermato che è infondata
l’eccezione di irricevibilità del ricorso per mancanza di provvedimento
definitivo. E’ vero che contro i decreti di dispensa dal servizio o di
destituzione, pronunciati dai capi delle corti, è fatto salvo il reclamo al
ministro di grazia e giustizia; ma quando, come nella specie, l’impiegato
colpito da quella misura disciplinare ripetutamente ricorre al ministero,
quando notifica a questo giudizialmente un atto invitandolo a provvedere e non
ne ottiene alcuna risposta, non può non riconoscersi nel prolungato silenzio
dell’autorità superiore la determinazione di far proprio il provvedimento
contro il quale è stato invano ad essa prodotto reclamo (Cons. St., sez. IV, 22.8.1902, n. 429, in Giur. It., 1902, II, 343).
Tale
soluzione, che era proposta inizialmente per ovviare al silenzio relativo ad un
ricorso gerarchico (silenzio-rigetto), viene estesa anche all’ipotesi del
silenzio-rifiuto.
Il
silenzio, in entrambi i casi, è considerato un provvedimento di diniego, in
quanto ritenuto tacita manifestazione della volontà di mantenere le situazioni
invariate (allo status quo).
La
giurisprudenza riteneva che, per la formazione del silenzio, non bastava la
sola pendenza di una domanda o di un ricorso gerarchico, ma che era necessario
un successivo atto di diffida, da parte dell’interessato, notificato
formalmente e contenente l’assegnazione di un termine.
Il
legislatore di quell’epoca ha, peraltro, ignorato il problema.
Solo
successivamente, nel tentativo di dare un rimedio giurisdizionale contro i
silenzi dell’amministrazione, il legislatore ha elaborato una procedura
particolare, il cosiddetto silenzio rifiuto, a validità generale, precisata
dall’art. 5, 5° e 6° co., r.d. 383/1934.
2
Il
silenzio inadempimento su ricorso amministrativo.
Il silenzio
inadempimento, o rifiuto a provvedere della pubblica amministrazione, si
concreta nell'omessa decisione su una domanda dell'interessato che impedisce al
richiedente di ottenere un provvedimento.
Il legislatore,
nel tentativo di dare un rimedio giurisdizionale contro i silenzi
dell’amministrazione, ha elaborato una procedura particolare il cosiddetto
silenzio rifiuto, a validità generale, pur essendo inserita nel t.u. della legge
comunale e provinciale del 1934 ora soppresso.
Dopo 120 giorni dalla presentazione del ricorso la
pubblica amministrazione veniva diffidata con istanza notificata a provvedere,
trascorsi altri 60 giorni il ricorso si intendeva non accolto e scattavano i
termini per quello successivo contro il silenzio rifiuto dell'amministrazione,
ai sensi del r.d. 383/1934, art. 5, 5° e 6° co., (Galli R. , Corso di diritto amministrativo
1996, 496).
La
giurisprudenza ha precisato che, affinché l'inerzia della p.a. nei confronti di
un'istanza amministrativa si qualifichi come "silenzio-rifiuto"
impugnabile in sede giurisdizionale, occorre che, alla predetta istanza, abbia
fatto seguito una formale diffida, nei modi di cui all'art. 5, l. comunale e
provinciale 3.3.1934, n. 383, con l'intimazione di un termine
all'amministrazione entro cui provvedere (Corte Conti, sez. IV, 27.1.1988, n.
71696).
3
Il
procedimento ex art. 25, d.p.r.
10.1.1957, n.3.
Il
d.p.r. 10.1.1957, n.3, prevede una procedura articolata nella presentazione da
parte dell'interessato di un'istanza all'amministrazione e nella successiva
diffida a provvedere entro il termine fissato per procedere alla eventuale
azione giudiziaria:
La norma dispone
che l'omissione di atti o di operazioni, al cui compimento l'impiegato sia
tenuto per legge o per regolamento, deve essere fatta rilevare da chi vi ha
interesse mediante diffida notificata all'impiegato e all'amministrazione a
mezzo di ufficiale giudiziario.
Quando si tratti
di atti o di operazioni da compiersi ad istanza dell'interessato, la diffida è
inefficace se non sono trascorsi sessanta giorni dalla data di presentazione
dell'istanza stessa.
Qualora l'atto o
l'operazione faccia parte di un procedimento amministrativo, la diffida è
inefficace se non sono trascorsi sessanta giorni dalla data di compimento
dell'atto od operazione precedente ovvero, qualora si tratti di atti od
operazioni di competenza di più uffici, dalla data in cui l'atto precedente,
oppure la relazione o il verbale della precedente operazione, trasmesso
dall'ufficio che ha provveduto, sia pervenuto all'ufficio che deve attendere
agli ulteriori incombenti.
Decorsi
inutilmente trenta giorni dalla notificazione della diffida, l'interessato può
proporre l'azione di risarcimento, senza pregiudizio del diritto alla
riparazione dei danni che si siano già verificati in conseguenza dell'omissione
o del ritardo, ex art. 25, d.p.r.
10.1.1957, n.3.
Il silenzio
inadempimento, o rifiuto a provvedere della pubblica amministrazione, si
concreta nell'omessa decisione su una domanda dell'interessato che impedisce al
richiedente di ottenere un provvedimento.
Qualora
l’amministrazione lasci decorrere i termini assegnati con l’atto di diffida,
l’interessato può ricorrere alla giustizia amministrativa per ottenere una sentenza
che accerti l’inadempimento e che imponga all’amministrazione di pronunciarsi
(Galli R., Corso op. cit., 1996,
496).
4
La disciplina
introdotta dall'art. 6, d.p.r. 24.11.1971, n. 1199.
Successivamente
il d.p.r. 1199/1971, che disciplina i ricorsi amministrativi, all'art. 6,
semplificando la procedura, ha disposto che, decorso il termine di 90 giorni
dalla presentazione del ricorso senza che l'organo adito abbia comunicato la
decisione, esso si intende rigettato –il cosiddetto silenzio rigetto - a tutti
gli effetti.
All'istituto del
silenzio rigetto, disciplinato dall'art. 6, d.p.r. 1199/1971, in quanto tende
ad accelerare e semplificare i procedimenti amministrativi, va attribuita
operatività generale secondo la interpretazione datane da dottrina e
giurisprudenza.
La
giurisprudenza ha sancito che tale normativa ha comportato l'abrogazione
dell'art. 5 del r.d. 383/1934.
Essa, inoltre,
in carenza di un intervento del legislatore che definisse la procedura
applicabile, ha ritenuto che, per formalizzare il comportamento
dell’amministrazione in un provvedimento di diniego, - ove allo stesso silenzio
non sia attribuita espressamente la valenza di diniego con la normativa
speciale - l’istante debba esperire la procedura per la formazione del silenzio
rifiuto contenuta nell'art. 25 d.p.r. 10.1.1957, n. 3, che approva il testo
unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello
Stato
Anche dopo
l'entrata in vigore del d.p.r. 24.11.1971, n. 1199, per effetto del quale è
venuto meno il regime del silenzio-rifiuto così come regolato dall'art. 3, t.u.
3.3.1934, n. 383, si rende necessaria la formale diffida per attribuire il
valore di silenzio-rifiuto alla perdurante inerzia dell'amministrazione serbata
su istanze sulle quali essa abbia l'obbligo di provvedere.
L’istante deve
utilizzare, con applicazione analogica, la procedura prevista dall'art. 25,
t.u. 10.1.1957, n. 3, che non è esclusivamente diretta a regolare il rapporto
di pubblico impiego e che prevede l'obbligo della diffida all'amministrazione a
provvedere nel termine di trenta giorni una volta decorsi sessanta giorni dalla
presentazione dell'istanza.
La
costruzione del silenzio-rigetto proposta dalla giurisprudenza più recente non
attribuisce effetti sostanziali all’inadempimento. Esso non concretizza cioè
alcun provvedimento amministrativo fittizio, ma produce soltanto effetti
processuali; seguono, quindi, importanti conseguenze che sono di impianto alla
successiva interpretazione giurisprudenziale
La
giurisprudenza ha precisato che, formatosi il silenzio, si hanno le seguenti
conseguenze: a) l'autorità investita dal ricorso gerarchico non perde solo la
potestà di decidere; b) il privato ha la scelta tra ricorrere in sede
giurisdizionale o straordinaria nei termini di decadenza, immediatamente contro
il provvedimento di base, ai sensi dell'art. 6, d.p.r. 1199/1971, o
successivamente contro l'eventuale decisione gerarchica tardiva, ove lesiva, in
base alle norme generali (Cons. Stato, A. P., 24.11.1989. n. 16).
Presupposto
necessario per la presentazione del ricorso giurisdizionale contro il
provvedimento originario è che siano trascorsi i 90 giorni.
Decorso
detto termine il ricorso si intende
respinto a tutti gli effetti, e contro il provvedimento impugnato è esperibile
il ricorso all'autorità giurisdizionale competente, o quello straordinario al
Presidente della Repubblica, ex art. 6, d.p.r. 1199/1971.
Secondo
la normativa vigente, quindi, il silenzio rigetto non è più un provvedimento -
tacito o implicito - come era considerato dalla concezione tradizionale, e
l’inerzia dell’amministrazione, protratta per 90 giorni, è valutata come un
semplice fatto di legittimazione che consente l’apertura della successiva fase
giurisdizionale.
La giurisprudenza
ha confermato che il silenzio sul ricorso gerarchico non è configurabile come
provvedimento tacito concludente il procedimento contenzioso, ma come
presupposto processuale per la proposizione del ricorso giurisdizionale o
straordinario avverso l'unico atto effettivamente emanato dalla p.a.
Il ricorrente in
via gerarchica può reagire in due forme diverse dinanzi al silenzio
dell'amministrazione, una volta decorso il termine di novanta giorni: con il
ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento originario, onde ottenerne
l'annullamento per motivi di legittimità, oppure con la procedura del
silenzio-rifiuto e la conseguente impugnativa giurisdizionale, per costringere
la p.a. a pronunciarsi sul ricorso amministrativo e, dunque, anche sulle
censure di merito ivi dedotte. (T.A.R. Emilia Romagna Parma, sez. I, 13.3.2010,
n. 94).
La disciplina di
cui all'art. 6, d.p.r. 24.11.1971, n. 1199, è stata ritenuta di carattere
generale, applicabile ai ricorsi gerarchici impropri.
La
disciplina di cui all'art. 6, d.p.r. 24.11.1971, n. 1199, è applicabile anche
ai ricorsi gerarchici impropri in tema di revisione dei prezzi nei contratti
d'appalto di opere pubbliche; pertanto, anche per tali ricorsi il termine di
novanta giorni per la formazione del silenzio comincia a decorrere dalla data
di presentazione del gravame, a nulla rilevando che nel relativo procedimento è
previsto il parere obbligatorio dell'apposita commissione ministeriale. Nel
caso di specie il Consiglio di Stato ha ritenuto non applicabile il
procedimento speciale previsto dall'art. 17, l. 741 del 1981, sul presupposto
che al momento della sua entrata in vigore il silenzio sul ricorso presentato
dalla società interessata si fosse già formato (Cons. St., sez. IV, 20.12.1996, n. 1307).
Ove non si sia
seguita l'anzidetta procedura non si verifica la formazione del silenzio
impugnabile in sede giurisdizionale (Cons. St., sez. VI, 12.5.1994, n. 752).
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