L’Ospedale al Mare
A
settembre la Cetta e Nicheto erano andati a trovare la zia Andreina, la sorella
più giovane della Roma.
“Come sta Giani” si era informata la zia non nascondendo la sua preoccupazione.
“Come
al solito. Speremo ben” sospirava la Cetta.
Nichetto
ascoltava ma non comprendeva appieno la gravità della malattia che costringeva
Giani a frequenti ricoveri.
Lui
quando tornava a casa diceva che non era nulla di grave.
Giani
assicurava sempre i suoi che dopo quel ricovero si sarebbe rimesso e sarebbe
stato finalmente bene.
Giani
però era sempre più stanco, i ricoveri si facevano più frequenti.
Non
andava più alla Casa di cura, aveva finalmente trovato un professore
dell’Ospedale al Mare del Lido che aveva diagnosticato la sua malattia.
Quando
però era riuscito a trovare l’origine
del male aveva nello stesso tempo perduto anche le residue speranze: si
trattava di un linfogranuloma maligno.
A
questo punto si era arreso, non combatteva più.
Nichetto
non riusciva a capire.
Se
era stata scoperta la malattia dovevano essere tutti più contenti. Perché
invece erano tutti i più tristi?
Bepi,
i camerieri, Tony sbrega boche, el marzian, Zerbetto, lo zio Pasquale avevano
tutti un'espressione molto triste.
Se
ci fosse stato il nonno Nicola, forse sì che lui avrebbe trovato un rimedio
invece se ne era andato qualche anno prima. Nichetto non se n'era nemmeno
accorta di questa tragica scomparsa.
Il
nonno si era messo a letto per una influenza e non si era più rialzato.
Poi
gli avevano detto che il nonno era andato via per sempre e che l’avrebbe
rivisto in cielo.
Nicheto
non aveva capito che quella era la morte perché non aveva notato nessuna
sofferenza nel volto di Nicola, che se ne era andato via serenamente senza
quasi soffrire, mentre notava sempre il sorriso triste sul viso di Gianni.
L’Ospedale
al Mare si affacciava sulla spiaggia del Lido.
Arrivarci
da Venezia era un viaggio.
Da
Rialto l’itinerario più veloce prevedeva l’imbarco da Piazza S. Marco, di
fronte alle Carceri di Palazzo Ducale, sulla motonave veloce – el bateo grando
- che portava al Lido.
La
motonave attraccava al piazzale di S. Maria Elisabetta; da lì bisognava salire
sull’autobus che ti portava all’Ospedale.
Nicheto
era andato a trovare Giani con lo zio Donato.
Se
non fosse stato per tutte quelle persone in camice bianco non si aveva neppure
l’impressione di essere in un ospedale.
I
reparti erano immersi nel verde del Lido: sembrava di essere in una delle
colonie marine affacciate sul mare agli Alberoni.
A
vederlo da lontano quel luogo pareva un centro di vacanza non di malattia.
Stranamente
pur essendoci una spiaggia lunghissima non c’era no bambini a giocare sulla
sabbia, ma persone di tutte le età che
cercavano di recuperare il bene più prezioso.
Il
sole e l’aria marina erano medicine portentose per ridarti la salute.
Il
sole portava calore, la brezza marina energia.
Questo
straordinario cocktail faceva venire voglia di vivere anche a chi stava
lottando con sofferenza contro la malattia e gli passava la voglia di farla
finita.
I
malati in via di guarigione trascorrevano la loro convalescenza sulla spiaggia.
Sembrava
che stessero trascorrendo una piacevole vacanza.
“Co
ti sta megio ti va anca ti in spiaggia”.
Diceva
Nicheto a Giani che faceva finta di crederci.
La
bellezza dell’ambiente marino cercava invano di mascherare il dolore.
Giani
era molto pallido, appariva dimagrito e stanco.
Giani non aveva paura della
morte. L'aveva vista in faccia tante volte nella ritirata di Russia aveva visto
il terrore negli occhi dei suoi commilitoni che non poteva far salire sul
camion perché era già colmo.
Non aveva paura per lui ma aveva
paura per Nicheto e per la la Cetta. Lei era una persona emotivamente instabile,
una brava donna di casa, ma gestire una famiglia e dare un futuro a Nicheto era
un’altra questione.
Per cui Giani preferivano parlare
con loro, nei pochi giorni che pensava gli rimanessero, rassicurandoli dicendo
che la sua non era una malattia grave e che sarebbero andati insieme ancora in
vacanza Montecatini.
Nichetto era un bambino
intelligente aveva capito che c'era qualcosa che non andava, ma preferiva come
lo struzzo mettere la testa sotto la sabbia ed aspettare gli eventi.
Era contento della sua vita si
trovava bene alle elementari, stava bene con gli amici del Campo San Polo, con
la Cetta, con la zia Bice, con lo zio Donato, viveva una infanzia che poteva
essere quasi felice.
“Ciao
come va Nicheto” lo aveva salutato Giani come se spostando l’attenzione sul
bambino, sulle cose che faceva, sulla scuola, sui giochi, sulla vita banale ma
tranquilla di tutti i giorni, avesse potuto per un momento esorcizzare dolore e
preoccupazioni.
“Varda
che bela zornada che xe ancuo, se ti sta megio ti pol andar anche ti in
spiaggia, te compagno mi” Nicheto indicava a Giani i degenti meno gravi che venivano
accompagnati in riva al mare dai parenti.
Sembra
quasi, a guardarli da lontano dalle finestre del reparto di medicina, che i
malati fossero degli allegri gitanti che si deliziavano del sole tiepido di
fine settembre.
“Sì,
sì la prosima volta femo cussì” diceva Giani nel tentativo di illudere Nicheto
con questa speranza di guarigione.
Nello
stesso istante di nascosto sussurra alla la zia Bice: “Te afido Nicheto e la
Ceta.”
Queste
erano state le sue ultime parole.
Lo
zio Donato che era un burbero era uscito dalla stanza per nascondere una
lacrima.
Solo
Nicheto che si ostinava a non capire restava lì a fare gli ultimi progetti di una
guarigione cui non credeva più nessuno.
Era
arrivato il medico di turno chiamato dall’infermiera per una difficoltà
respiratoria. Gli infermieri avevano fatto uscire Nicheto dicendo che dovevano
portare una bombola di ossigeno ma che non era niente di grave, avevano invitato
tutti i parenti a tornare a casa che tutto era sotto controllo.
Giani
era morto quella notte.
Il
linfogranuloma maligno non aveva, come suo costume, perdonato.
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