Sono ormai una ventina i Comuni italiani che iscrivono
all’anagrafe i bimbi di coppie gay, di fatto avallando la pratica della
maternità surrogata. Il quotidiano La Verità li ha messi in fila:
Torino, Gabicce Mare (PU), Catania, Grosseto, Roma, i comuni piemontesi di
Moncalieri, Settimo, Piossasco, Collegno, Caselette, Gassino, Borgaro, Chieri,
Nichelino e Beinasco. E ancora Milano, Napoli, Bologna e Crema. Una lunga lista
di amministrazioni – ma sarebbe più opportuno parlare di amministratori – che
per una deriva ideologica violano la legge italiana. E anche se grandi
conquiste civili nel tempo sono state ottenute con delle forzature non è questo
il caso. Checché ne dicano i fautori dell’utero in affitto.
Una volta tanto vale appellarsi all’Europa per capire quale
sia la verità dietro la maternità surrogata: un enorme traffico di
interessi economici, che per lo più non risponde all’umanamente comprensibile
desiderio di avere figli, ma alla richiesta di mercato di ricchi
capricciosi. Etero o gay che siano. Più volte, in questi anni, Strasburgo
è stata interpellata sul tema, con spinte poderose affinché si esprimesse a
favore. Più volte Strasburgo ha resistito, tenendo fede ai suoi patti
costitutivi, quella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che nel
capitolo “Diritto all’integrità della persona”, vieta in via
assoluta «di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una
fonte di lucro». Che rifiuta insomma l’idea che in questa parte di mondo ci
si possa vendere un rene o, ugualmente, affittare l’utero.
Raramente i profili delle madri
surrogate assurgono alle cronache, ma quando capita si scopre che si parla
di ragazze giovanissime, già madri di altri figli, magari single e con un
lavoro modesto. Notizie di casalinghe di Beverly Hills o di avvocatesse
liberal di Harvard che hanno affittato l’utero, invece, non ne sono mai
giunte. Ma sia chiaro: la faccenda non riguarda solo i vip. A Roma sono stati
registrati 250 casi di bambini nati in Ucraina e portati in
Italia da coppie che li hanno iscritti all’anagrafe come propri. Una
vicenda un po’ sospetta, di cui ha dato conto Il Messaggero, spiegando che
c’è un’inchiesta aperta sui «membri dell’organizzazione che gestiva le trasferte».
Dicono coloro che sfruttano la pratica dell’utero in
affitto che non c’è mercimonio. «Le cose non stanno affatto così: una
gestazione per altri in Canada costa mediamente 120 mila dollari, somma che
viene eufemisticamente definita “rimborso spese”», hanno scritto al direttore
di Repubblica Mario Calabresi in una lettera aperta che però non
sembra aver avuto la stessa visibilità dell’articolo sulla “famiglia
arcobaleno” di Torino.
«Si paga una donna per confezionare un
prodotto-bambino. Non si tratta di altruismo né di dono, come si sostiene
più avanti: far credere che le donne si mettano “generosamente” e gratuitamente
a disposizione di sconosciuti, con grave pregiudizio per la propria salute
fisica e psichica, è offensivo e profondamente misogino», hanno
scritto ancora le rappresentanti di Rua, le cui posizioni hanno poi trovato
spazio sul Manifesto. «Il corpo di una donna non è suo perché lo metta sul
mercato nella capacità materna, e nemmeno il neonato è una proprietà
cedibile», si legge nell’articolo sulle «madri lesbiche che tirano la volata
alla Gpa (Gestazione per altri, ndr)» e che si conclude, questo sì, con un
richiamo ai diritti dei bambini: «Chiedetelo al neonato chi è sua madre, quando
si fa strada per raggiungere il capezzolo che lo nutrirà, quando si sente
rassicurato dalla presenza del corpo materno». secoloditalia.it/2018/05/
LA bufala
legalità quando non è progressista non è di moda